International Gramsci Society Newsletter
Number 10 (March, 2000): 6-14 < prev | tofc | next >  

Libri su Gramsci

Su alcuni temi dei convegni italiani su Gramsci del 1997

Guido Liguori

Nel 1999 sono giunti in libreria i volumi con gli atti dei principali convegni che hanno avuto luogo in Italia nel 1997, in occasione del sesto decennale della morte di Gramsci. Nello scorso numero della Igs Newsletter è stata pubblicata un'ampia ed esauriente recensione di Lea Durante su Gramsci da un secolo all'altro (a cura di Giorgio Baratta e Guido Liguori, Editori Riuniti, pp. 275, £ 35.000), libro contenente le relazioni del convegno di Napoli della International Gramsci Society, svoltosi nell'ottobre 1997. Vorrei fornire qui qualche breve, e necessariamente incompleta e parziale, osservazione sugli altri libri in questione, rimandando per ulteriori informazioni anche agli indici di ciascuno di essi, che è possibile trovare integralmente negli aggiornamenti bibliografici degli scritti su Gramsci apparsi in Italia nel 1998 e nel 1999, pubblicati sulla Igs Newsletter. Nel tentativo di riferire--in poco spazio--di eventi collettivi che hanno impegnato decine e decine di studiosi, non si può che essere incompleti e parziali. Chiedo scusa in anticipo di ciò: queste brevi note, del resto, non si prefiggono di dar conto di tutti i contributi e neanche di tutti quelli che mi paiono importanti, sotto diversi profili, ma solo di avanzare una ipotesi sulle linee di tendenza oggi più rilevanti della riflessione su Gramsci, così come mi pare si siano riverberate nello specchio, parziale ma significativo, dei maggiori convegni svoltisi in Italia nel 1997.

1. Inizio da Gramsci e il Novecento: sotto questo titolo, in due volumi (a cura di Giuseppe Vacca, Carocci editore, pp. 381+339, £. 44.000+40.000), vengono presentati i materiali originati dal convegno della Fondazione Istituto Gramsci, svoltosi a Cagliari il 15-18 aprile 1997. Si tratta di scritti spesso molto interessanti. Occorre dire che la ripartizione dei testi fra il primo e il secondo volume (che non riflette l'andamento delle giornate cagliaritane) fa pensare a una scelta almeno in parte non casuale. Almeno in parte, perché in questi casi fattori contingenti entrano sempre a determinare il "prodotto finito". Resta il fatto che il primo volume (uscito molti mesi prima del secondo) appare tematicamente più compatto, il secondo più miscellaneo. Non voglio dire che il [END PAGE 6] primo sia quasi un "quaderno speciale", ma che in esso è rintracciabile un percorso (non univoco, con momenti di dibattito e dissenso anche forte) molto attento alla declinazione che di alcune categorie gramsciane--soprattutto quella di "società civile"--viene oggi fatta prevalentemente, ma non solo, in ambito anglo-americano e in una prospettiva che definirei democratico-liberale. Alla stessa problematica fa anche riferimento il contributo di Anne Showstack Sassoon; e sulle origini filosofiche del concetto di società civile dice cose di grande interesse Carlos Nelson Coutinho: due interventi ospitati nel secondo volume, insieme--lo ripeto--ad altri scritti di rilievo, ma non riconducibili a un discorso tematicamente coeso. Privilegio comunque il punto di dibattito sulla "società civile" anche perché, a mio avviso, i due momenti sui quali si è concentrata la più significativa discussione gramsciana di questi ultimi anni sono entrambi correlati alle odierne trasformazioni sociali, economiche e politiche: i nessi Stato-nazione-società civile e le note di Americanismo e fordismo. Gli studi anglo-americani odierni (a Cagliari erano presenti, oltre a Showstack Sassoon, Robert Cox, Jean L. Cohen, Stephen Gill) utilizzano di Gramsci soprattutto i concetti di egemonia internazionale e di società civile, inseriti in una lettura del quadro politico odierno che dà per scontata la tendenza alla mondializzazione economica e al depotenziamento del politico-statuale. Questi due fenomeni (che sono reali, anche se spesso artatamente enfatizzati) vengono assunti in positivo, come nuova possibilità di liberazione. E in questo quadro viene sussunta anche la riflessione dei Quaderni. Devo dire che, a mio avviso, si commettono così due errori: sul piano teorico, si opera una errata lettura di Gramsci, sottovalutandone il concetto di Stato allargato (mi permetto di rinviare al mio contributo nel volume degli atti del convegno "Marx e Gramsci", svoltosi a Trieste il 20.21 marzo 1999, di prossima pubblicazione). Sul piano politico, si rischia di indebolire il discorso della sinistra, rinunciando in partenza a quegli strumenti politico-statuali di controllo del mercato che sono gli unici che fino ad ora si sia stati in grado di mettere in campo contro la logica del capitale.

A Cagliari, l'intervento più esplicito nel collegare dibattito odierno ed elaborazione gramsciana è stato quello di Robert Cox. Non sorprende che egli si rifaccia alla lettura di Bobbio e accosti Gramsci a Toqueville (come fa del resto anche Nadia Urbinati nello stesso volume). Cox ammette infatti che l'attuale riduzione del ruolo dello Stato sia una sconfitta per i ceti oppressi, ma fa derivare da ciò una nuova opportunità: rilanciare "il complesso delle azioni collettive autonome" dei ceti subalterni. Questo insieme costituirebbe la società civile: ong, volontariato, forme interstiziali sottrattesi al mercato sarebbero da rapportare alla gramsciana società civile perché è questo nei Quaderni "l'ambito nel quale avvengono i cambiamenti culturali" (p. 240), intesi come mutamenti della soggettività. Su questa base l'autore auspica una nuova democrazia partecipativa e una "società civile globale", base di un ordine mondiale alternativo. Pur riconoscendo--ad esempio--che le ong in realtà sono sempre più foraggiate dai sussidi statali e rese dunque sempre [END PAGE 7] più "conformiste", l'autore vede in questo eterogeneo mix volontaristico, non economico e comunque non economicistico, la possibilità di una alternativa globale al capitalismo. Si è dunque di fronte a una disarticolazione dell'impianto teorico gramsciano (imperniato sulla unità dialettica di Stato e società) e a una concezione antistituzionale della politica, che potremmo dire "soreliana".

La ridefinizione della società civile come insieme di associazioni volontarie è affermata anche da Jean L. Cohen. Per questa autrice è facile collocare Gramsci in tale temperie culturale, poiché le sembra che il pensatore sardo abbia insistito soprattutto sulla autonomia della società dallo Stato. In maniera analoga, anche se con toni politici più radicali, Stephen Gill affida agli intellettuali il compito di far emergere una coscienza collettiva alternativa. Classi e partiti--punti fermi della ricognizione teorica dei Quaderni--non trovano spazio in questo discorso.

In una direzione per alcuni aspetti convergente si muovono anche alcuni studiosi italiani. Nell'intervento pronunciato al convegno Il giovane Gramsci e la Torino d'inizio secolo (Torino, 20-21 novembre 1997, atti pubblicati da Rosenberg & Sellier, 1998, pp. 303, £. 35.000), Giuseppe Vacca ha parlato a tal proposito di "una nuova stagione di studi gramsciani" e di "studiosi che concorrono al rinnovamento delle interpretazioni del pensiero di Gramsci", rinnovamento caratterizzato sia da una ripresa "delle ricerche filologiche", sia alla "elaborazione di nuove interpretazioni dei Quaderni del carcere" (p. 239). Tornerò più avanti sugli atti del convegno torinese. E' utile però anticipare la posizione in quella sede esplicitata da Vacca, che--a partire da Americanismo e fordismo e dalla tesi della netta separazione tra la riflessione del carcere e l'elaborazione precedente--legge Gramsci come pensatore della mondializzazione, della crisi dello Stato-nazione, della formazione di una "società civile internazionale" (pp. 244-245). "La nazione-- scrive Vacca, interpretando Gramsci--non può più essere costretta nell'orizzonte della vita statale", e anche la politica si separerebbe dallo Stato. E' una lettura che non manca di incertezze--come si inserisce in essa l'affermazione dello stesso Vacca per cui "Gramsci percepisce lucidamente che i centri della diffusione mondiale dell'industrialismo di tipo americano sono gli Stati nazionali. Essi definiscono tuttora il teatro principale della lotta politica" (p. 245)? --ma resta il fatto che il punto di approdo del discorso di Vacca è un Gramsci teorico di "una nuova concezione della politica", che sembra collocarsi in un orizzonte di pensiero lontano da quello della tradizione comunista. Una reinterpretazione complessiva dei Quaderni, dunque.

Tornando al convegno di Cagliari, concorda con l'impostazione di Vacca Marcello Montanari, per il quale Gramsci è soprattutto il pensatore della crisi dello Stato, che coglie l' "esaurirsi della funzione progressiva storicamente svolta dagli Stati-nazione" (p. 25), fino addirittura a giungere alla conclusione che "l'idea moderna di democrazia trascende la figura dello Stato-nazione" (p. 35). Fine dello Stato nazionale, orizzonte democratico post-nazionale, centralità della società civile internazionale, e anche riconoscimento del mercato--in Gramsci--sono i [END PAGE 8] cardini di questa interpretazione, tematizzata in modo più articolato nell'introduzione all'antologia di scritti gramsciani Pensare la democrazia,curata da Montanari stesso per i tipi di Einaudi.

Si può collegare a queste tesi anche la posizione espressa a Cagliari da Mario Telò, che afferma che "il dubbio sul possibile ruolo dello Stato come leva della modernizzazione percorre le note del carcere di Gramsci, ma ci pare che egli infine propenda per un'accezione critica" (p. 55). Quest'autore, che pure mette in guardia dal sottovalutare il ruolo delle istituzioni politiche nella riflessione carceraria e dal trascurare la distanza che separa il Gramsci maturo da Sorel, finisce coll'affermare che la categoria di Stato allargato non ha valenza strategica di lungo periodo: Gramsci, pur affondando le proprie radici teoriche nella riflessione panstatalista degli anni trenta, con il suo sguardo sul lungo periodo la trascende: è lo Stato liberale l'unico che egli finirebbe così per vedere quale "forma istituzionale la più idonea al tipo di modernizzazione e di internazionalizzazione economico-politica che si profila" (p. 68).

Le considerazioni svolte da Anne Showstack Sassoon sembrano avere un ruolo di "frontiera" rispetto al "rinnovamento delle interpretazioni del pensiero di Gramsci" di cui stiamo parlando. Da una parte l'autrice è molto attenta nel ricostruire correttamente le posizioni del pensatore sardo, la sua riflessione sull'espansione dello statuale iniziata con la prima guerra mondiale. E cerca di mettere a fuoco i cambiamenti oggi intervenuti. Ad esempio, il volontariato, il non-profit, le ong, il terzo settore costituiscono per Showstack Sassoon "la nuova trama di relazioni che legano lo Stato all'individuo" (pp. 98-99). Non sarebbero cioè--se capisco bene --"società civile" liberata dal ritirarsi dello Stato, ma parte dello Stato allargato, pur ridefinito. Un modo tramite cui vengono riclassificati compiti e ruoli di supporto del welfare al mercato capitalistico, in sé comunque incapace di soddisfare una larga parte di bisogni.

Altri interventi cagliaritani mi paiono connotati da toni in parte o del tutto diversi. Michele Ciliberto, ad esempio, sottolinea come non si possa attribuire a Gramsci una posizione che sostenga l'avvenuta esautorazione dello Stato-nazione. Scrive Ciliberto: "Nei Quaderni--e su questo vorrei essere chiaro--non c'è dunque alcun rovesciamento meccanico del primato del 'nazionale' a favore dell' 'internazionale': sa bene, Gramsci, che se la prospettiva è internazionale, il processo storico è assai lungo e tortuoso" (p. 169). Per lo statunitense Benedetto Fontana, più nettamente, "l'uso corrente del termine 'società civile', sia in senso gramsciano, hegeliano o liberale, all'interno del dibattito politico-culturale, non è che il riflesso del progressivo imborghesimento del mondo, della 'globalizzazione', e del diffondersi di forze economiche all'interno dei mercati, nonché della proliferazione di enti privati ed associazioni sempre più concentrati su singoli interessi" (p. 190). Remo Bodei richiama i fenomeni nuovi degli anni venti-trenta, che hanno in Gramsci un acuto osservatore: "Lo Stato assimila compiti e istanze in precedenza fuori dalle sue competenze" (p. 185). E aggiunge: "Si sta attualmente diffondendo una specie di 'popperismo degli stentarelli' che pensa di difendere e salvare l'eredità di Gramsci facendolo per forza apparire [END PAGE 9] un liberale" (p. 185). Roberto Racinaro, da parte sua, ricorda come la società civile che Gramsci desume da Hegel "non designa più la sfera dei rapporti economici separata da quella dei rapporti politici. Essa designa una situazione che non corrisponde alle distinzioni dello Stato liberale" (378). E' il processo di diffusione della politica, che Gramsci coglie con la categoria di Stato allargato.

E' lo stesso Racinaro a richiamare il convegno dell'Istituto Gramsci che si svolse a Firenze nel dicembre 1977. Rispetto ad esso, questo convegno cagliaritano sembra per alcuni versi situarsi agli antipodi, quasi ricollegandosi al convegno di Cagliari del 1967 e alla celebre relazione su "Gramsci e la società civile" che vi tenne Bobbio. Non si vuole con questo etichettare tutti i contributi dell'uno o dell'altro consesso, ma solo richiamare i motivi più caratterizzanti. Nel 1977 la problematica del "farsi Stato" della classe operaia (il Pci alla ricerca di una "terza via") portò a una lettura dei Quaderni per alcuni versi troppo schiacciata sulla politica, ma almeno precisa nell'enucleare categorie fondamentali, come Stato allargato e rivoluzione passiva. Oggi, in un'altra temperie socio-politica e culturale, non a caso torna di gran moda la società civile. Da Cagliari a Cagliari, verrebbe da dire.

Ha ragione Renato Zangheri nell'affermare, nell'introduzione a Gramsci e il Novecento, che quella di Gramsci non può essere che "una attualità altro che intellettuale. La sua traduzione in politica vivente è un compito che spetta ai contemporanei" (p. 18). E' forse per questa ragione che non è stata pubblicata la tavola rotonda conclusiva, a cui presero parte Massimo D'Alema (il cui intervento venne pubblicata dal Sole 24 ore del 31 luglio '97 col titolo Che eretico quel Gramsci liberale), Felipe Gonzalez, Giuseppe Vacca, Federico Palomba? Il monito di Bodei sopra ricordato mette con forza in guardia contro il rischio, diretto o indiretto, di arruolando Gramsci in un orizzonte di pensiero diverso e opposto al suo, "sollecitandone" i testi oltre il dovuto.

2. E' interessante notare come una versione di sinistra (ovvero ancorata al tema della lotta delle classi e dell'orizzonte comunista) sia in alcuni interventi del volume Gramsci e l'Internazionalismo (a cura di Mario Proto, Lacaita, 1999, pp. 230, £. 25.000), atti del convegno omonimo svoltosi a Lecce il 20-21 ottobre 1997. Pasquale Voza, ad esempio, ritenendo irreversibile la crisi dello Stato-nazione, sostiene l'impossibilità di non andare, per alcuni aspetti, oltre Gramsci, di cui riconosce scrupolosamente le posizioni: "'Non c'è Stato senza egemonia': aveva detto Gramsci nel Quaderni del carcere [...] Ebbene, ora, dovremmo dire, c'è una egemonia capitalistica senza Stato, senza cioè l'attiva mediazione sociale e culturale dello Stato-nazione. Le casematte di questa egemonia capitalistica non sono riconducubili entro i confini tradizionali degli 'apparati ideologici di Stato', ma si articolano e si intrecciano in una trama di poteri e di saperi di ordine sovranazionale" (105-106). Anche per Isidoro Mortellaro Gramsci è soprattutto un "teorico della crisi dello Stato-nazione: è questo il tema del secolo, che scorre per tutto il [END PAGE 10] Novecento" (p. 168), anche se, d'altro canto, egli afferma che "oggi che il liberalismo disvela appieno la sua capacità d'unificazione del mondo, si rivela fino in fondo la lezione di Gramsci sull'inganno della distinzione liberale tra Stato e società civile" (p. 169). Diversa, sempre nel convegno leccese, la posizione di Arcangelo Leone de Castris, molto più attento (come Gramsci) ai percorsi nazionali imprescindibili per arrivare a un "nuovo internazionalismo" non a egemonia capitalistica.

3. In tutt'altra direzione rispetto a Gramsci e il Novecento sembra andare Gramsci e la rivoluzione in Occidente (a cura di Alberto Burgio e Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, pp. 377, £. 40.000), libro che raccoglie le relazioni del convegno promosso dal Partito della Rifondazione comunista, svoltosi a Torino nel dicembre 1997. Come affermano a chiare lettere nella Premessa i due curatori, Gramsci è infatti considerato qui "un compagno di strada e di battaglia" (p. XI). Vi è, cioè, un rapportarsi a Gramsci più direttamente "politico", fin troppo immediato, anche se di segno opposto a quello che ha caratterizzato alcuni momenti dell'assise cagliaritana. Ma tale atteggiamento è dichiarato, esplicitato, interno quasi al fatto stesso che sia stata una forza politica a organizzare questo momento di riflessione e di confronto.

Tra tutti i contributi, vorrei almeno segnalare quelli di Domenico Losurdo, su Conflitto sociale, questione nazionale e internazionalismo, perché la sottolineatura del privilegiamento gramsciano della tematica "nazionale" costituisce una risposta indiretta (e molto efficace) ad alcune delle tesi che abbiamo visto affiorare nel dibattito cagliaritano ("l'attenzione alla questione nazionale è [prima per Gramsci, poi per il Pci] il terreno privilegiato su cui si sviluppa la lotta per l'egemonia [...] il conflitto nazionale è una forma del conflitto sociale, di cui, in certi momenti, , la questione nazionale diviene l'espressione più acuta e concentrata" (pp. 212 e 214); di Aldo Tortorella, che ha polemizzato con le interpretazioni di Gramsci come alfiere della "rivoluzione liberale" (pp. 260-262); e di Francisco Fernandéz Buey, su un tema non scontato come quello dell'etica nei Quaderni. Va anche detto che questo dell'etica è stato un altro polo, sia pur "minore", del dibattito del '97: oltre ai ripetuti interventi di Tortorella (si veda ad esempio quello in Gramsci da un secolo all'altro), va ricordato l'importante contributo cagliaritano di Giuseppe Cacciatore.

Indubbiamente anche al convegno di Rifondazione molti sono stati gli interventi di rilievo. Voglio qui soffermarmi --per i motivi già sopra richiamati --solo sulla tematica che a mio avviso ha maggiormente caratterizzato questo incontro: quella di Americanismo e fordismo--ma forse qui sarebbe meglio dire "taylorismo e fordismo"--, punto sul quale vi è stata una differenziazione significativa e di grande interesse. Da una parte, infatti, si sono registrati gli interventi di Adalberto Minucci, che ha ricostruito con efficacia l'importanza storica della scoperta del Quaderno 22, lungamente sottovalutato, per la sinistra italiana, e di Alberto Burgio, che ha affrontato questioni più propriamente teoriche. Minucci e Burgio hanno concordemente sottolineato la fecondità di [END PAGE 11] Americanismo e fordismo, rigettando--in modo esplicito Burgio--alcune recenti letture, in primo luogo quella avanzata da Bruno Trentin in La città del lavoro (Feltrinelli, 1996), tendenti a giudicare le posizioni gramsciane come tutte interne alla cultura industrialista, produttivista, neutralista per quanto concerne lo sviluppo delle forze produttive, cultura propria del movimento sia socialista che comunista almeno fino al "secondo biennio rosso" 1968-'69. Una sorta di feticismo della tecnica, rintracciabile nei molti apprezzamenti che Gramsci riserva al taylorismo. A tal proposito, Burgio ha ricordato come la distinzione tra le macchine e il loro "uso capitalistico" sia già in Marx (p. 172); coerentemente, "il progetto gramsciano e ordinovista di 'scissione' dialettica del taylorismo appare del tutto conseguente al programma critico marxiano" (p. 176). Al contrario, nel suo intervento conclusivo, Fausto Bertinotti ha pesantemente rilanciato il giudizio critico su Americanismo e fordismo. Gramsci è per Bertinotti pensatore "difficile" perché di frontiera, "ambiguo", tale da provocare un rischio di "spaesamento" nel lettore. Gramsci avrebbe "una idea della razionalità e della scienza fortemente connotata da derivazioni positiviste, o quanto meno da una concezione largamente segnata dalla presunzione di neutralità della scienza" (p. 367). Anche se non si può dire che Gramsci sia "un pensatore interno alla modernizzazione capitalistica", resta il fatto che "in questo caso--scrive Bertinotti--quell'ambiguità che in genere è feconda a me pare, invece, di dubbio effetto" (p. 368). Americanismo e fordismo è un testo complesso ed è innegabile che provochi problemi interpretativi, dubbi e questioni. Anche studiosi come Franco De Felice e Mario Telò, che negli anni settanta hanno scritto alcune tra le cose migliori sull'argomento, non hanno taciuto certo questa problematicità. Il giudizio che vede un Gramsci interno alla cultura industrialista e produttivista del suo tempo non pare del tutto infondato e l'ambiguità di cui parla Bertinotti non è che non abbia nei testi una qualche giustificazione. Però--fermo restando che la discussione è destinata a continuare--un giudizio e un'ottica più equilibrati potrebbero essere utili a inquadrare in tutta la sua complessità (e ricchezza) il testo gramsciano, importante innanzitutto perché rompe con lo stagnazionismo e il catastrofismo tanto della Seconda che della Terza internazionale, sottolineando il carattere propulsivo del capitalismo statunitense. Questo punto è stato ricordato anche nell'introduzione di Zangheri a Gramsci e il Novecento; dove però non si manca pure di osservare che Gramsci "probabilmente sottovaluta i conflitti che una simile trasformazione provoca nelle fabbriche e nelle vite dei lavoratori [...] ci si può chiedere se Gramsci colga tutto il potenziale di 'passività' insito nel fordismo, l'elemento intimamente costrittivo a cui il lavoratore viene sottoposto" (p. 13).

Vi è, insomma, nell'intervento torinese di Bertinotti--insieme, è ovvio, a un grande rispetto e a una grande simpatia "militante"--un'asprezza troppo accentuata nei confronti dell'autore del Quaderno 22. Un'asprezza "politica", che forse viene proprio da un tipo di discussione e di atteggiamento che considera Gramsci, senza molte mediazioni, un "compagno di battaglia", un [END PAGE 12] comunista col quale dialogare e anche scontrarsi, per trovare la "strada" su cui procedere. E' possibile, però, oggi, un tale atteggiamento, che non considera adeguatamente, a mio avviso, insieme alla ricchezza dell'insegnamento di Gramsci, tuttora di grande utilità, anche la distanza che ci separa dal suo mondo? L'autore dei Quaderni non è certo solo un "classico", specie se si declina tale parola in senso "imbalsamatorio". Ma la sua lezione andrebbe letta sempre accompagnandola con uno sforzo di contestualizzazione, che tenga ben presente sia il suo tempo che il nostro. Perché da una parte non si attui quella tendenza a forzare i testi che Gramsci per primo paventa (facendo del comunista sardo, ad esempio, un liberale), ma, dall'altra, non si dimentichi che la sua attualità--per ripetere le parole di Zangheri--è intellettuale e non direttamente politica.

4. Le tesi critiche su Americanismo e fordismo trovano sostenitori anche nel convegno, a cui ho sopra fatto cenno, organizzato dalla Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, i cui atti--Il giovane Gramsci e la Torino d'inizio secolo--sono usciti presso Rosenberg & Sellier. E' un volume ricco di notizie e notazioni non solo su Gramsci, ma sul contesto sociale, politico e culturale cittadino nel quale visse e si formò: Mi limito qui a fare riferimento solo ai contributi di Marco Revelli e Franco Sbarberi. Per il primo, Gramsci coglie perfettamente le implicazioni del metodo Taylor, anche quelle più "feroci" per il lavoratore. E tuttavia egli "non esita a considerare 'progressivo' il passaggio al fordismo-taylorismo come paradigma industriale prevalente. A farne una tappa necessaria nel processo rivoluzionario. Intanto perché l'antropologia 'ergocentrica', per così dire, capitalista-fordista [...] non è molto diversa da quella comunista-gramsciana, anch'essa orientata in forma pressoché assoluta alla funzione produttiva dell'uomo-lavoratore alla sua natura assorbente di homo faber, e alla necessità che a una tale natura corrisponda un'adeguata 'etica' (un'etica del lavoro, appunto, assoluta). La differenza sembra consistere esclusivamente nel modo in cui tale interiorizzazione della razionalità tecnica della fabbrica fino a farne una 'seconda natura' deve avvenire, per via esteriore e coattiva (nel fordismo) o per via interiore e partecipativa (nel comunismo)" (p. 34).

Sbarberi si misura invece sul parallelo tra Marx e Gramsci, traendo conclusioni opposte a quelle che abbiamo visto nelle tesi di Burgio. Per Marx (nel Capitale) "quando la trasformazione del lavoro in lavoro sociale implica la mediazione del mercato, i termini che si rapportano non sono gli individui intesi come generici 'produttori', bensì gli uomini ridotti a cose, e la loro attività è lavoro oggettivato nella merce, reso generico o comune dal valore di scambio, non azione politicamente liberatoria. E' questo l'elemento che sembra sfuggire a Gramsci allorché, trascurando di definire la natura delle prestazioni erogate dai singoli nella fabbrica capitalistica, sposta tutto l'accento sul livello di accentramento e sulle forme di disciplina del lavoro che la 'tecnica [END PAGE 13] industriale' ha imposto all'insieme dei produttori, come se le modalità del ciclo lavorativo potessero
essere disgiunte da quelle del processo di valorizzazione del capitale" (pp. 54-55).

5. A Bertinotti, Trentin e all'approccio che denomina "sindacalista-rivoluzionario" replica Giorgio Baratta nel suo contributo in Scuola, intellettuali e identità nazionale nel pensiero di Gramsci (a cura di Lorenzo Capitani e Roberto Villa, Gamberetti editore, pp. 151, £. 29.000. Il volumetto ospita gli atti dell'omonimo convegno, svoltosi a Reggio Emilia l'11 dicembre 1997). Come già Burgio, Baratta vede continuità fra la riflessione di Marx e quella di Gramsci. I sostenitori del produttivismo gramsciano, egli dice, "non fanno i conti con la distinzione marxiana tra 'rapporto materiale di produzione' e 'rapporto sociale di produzione', chiaramente presente a Gramsci. Gramsci, come Marx, sapeva bene che anche le 'forze produttive' (operai, macchine, materie prime, organizzazione del lavoro) costituiscono un 'rapporto' e come tale una realtà 'contraddittoria', non 'neutrale " (p. 49). Tuttavia, a me sembra, distinguere tra la tecnica e il suo uso non è questione di poco conto, sia teoricamente che politicamente: il discorso andrà approfondito, soprattutto per quel che riguarda Gramsci; ma anche allargando il confronto con i Grundrisse. Se le letture che fanno di Gramsci quasi un potenziale organizzatore dei campi di lavoro (ancora più "feroci" della fabbrica capitalistica) sono palesemente infondate per chi conosca la sua biografia umana, intellettuale e politica, riflettere davvero sulla cultura industrialista di tutto il marxismo, della Seconda e della Terza Internazionale, non permette soluzioni facili. E' necessario dunque continuare a scavare, in questo quadro, anche sulle "ambiguità" (o presunte tali) di Americanismo e fordismo. Ma con una premessa, che Baratta richiama: è Gramsci stesso, nel Quaderni, a istituire una continuità tra la riflessione dell'Ordine Nuovo e la riflessione del Quaderno 22. Abbiamo visto che la negazione di questa continuità, riferita all'intero impianto teorico dei Quaderni, era il presupposto dell'interpretazione di Vacca. Forse su questo nodo, sulla domanda se Gramsci in carcere riprenda (sia pure nell'ambito del ripensamento indotto dalla "sconfitta") oppure profondamente revisioni l'elaborazione precedente, magari cambiando orizzonte ideale e politico, che si decide molto del profilo con il quale il pensatore sardo sarà recepito nel secolo che si apre.   ^ return to top ^ < prev | tofc | next >