International Gramsci Society Online Article
January 2003
 

Gramsci, modernità e globalizzazione

Stephen Gill

Traduzione di Donatella Di Benedetto

Preparato per il congresso: "Gramsci e il Novecento," Istituto Fondazione Gramsci, Sardegna, 15-18 aprile, 1997. Modificato 17 luglio 1997.[1]

Questo saggio è un tentativo di approccio e sviluppo dei concetti gramsciani di stato e società civile, di blocco storico e sua proiezione nella società, concetti legati alla modernità e alla ristrutturazione neoliberale dell'economia politica globale contemporanea. Al centro di questo lavoro vi è l'idea che la struttura attuale del sistema mondiale e le forme dominanti di stato e società civile sono in una situazione di «crisi organica». La crisi determina cambiamenti strutturali nelle idee, nelle istituzioni, nelle potenzialità materiali che costituiscono l'ordine mondiale, in un processo che si può definire di trasformazione globale. Gran parte di questo processo è stato guidato dalle forze delle classi dominanti che si richiamano all'utilitarismo ottocentesco e all'economia politica classica.

Il potere e l'influenza degli Stati Uniti nella politica mondiale implicano che la forma statuale neoliberale si è via via tradotta, alla fine di questo secolo, in un modello emulativo, sotto la pressione del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e del G 7, o in senso più ampio, della sintesi di potere pubblico e privato che io chiamo il «nesso G 7». Si può definire questo nesso come la costellazione di forze politiche e sociali che, esercitando una funzione di controllo e di tutela, regolano l'ordine mondiale neoliberale. La formula varia nei vari complessi di stato-società civile, o, per usare le parole di Gramsci, nelle forme dello «stato allargato»: la compenetrazione della società civile e politica nella forma dello stato, in un processo di internazionalizzazione della politica e della sorveglianza.[2]

Tuttavia, questa trasformazione mondiale rivela, come Gramsci avverte per la sua epoca, molti «sintomi morbosi», come ad esempio una maggiore polarizzazione sociale e una crisi generale dello stato e dell'autorità politica. [3] In tal contesto, allora, come potrà realizzarsi l'opposizione al neoliberismo da parte di un blocco storico egemonico progressivo? Esso sarà articolato attraverso nuove forme di mobilitazione politica o, magari, ci sarà un nuovo tipo di «mito-principe» volto a governare e trasformare l'ordine mondiale alla svolta del XX secolo in una direzione più democratica e sostenibile?

Modernità, civilizzazione e capitalismo

Riguardo all'economia politica, l'ipotesi generale da cui prendo le mosse è che a partire dall'Ottocento si abbia assistito ad una progressiva accelerazione quantitativa e qualitativa nella trasformazione delle strutture socio-politiche moderne (per esempio lo stato nazione integrale e il sistema interstatuale, l'espansione e la penetrazione del capitale nelle relazioni sociali, i processi di industrializzazione e razionalizzazione) come pure si è verificato un cambiamento nei rapporti tra i soggetti di questo processo.[4]

Possiamo, in breve, mettere in luce alcuni dei cambiamenti più significativi, determinatisi negli ultimi tre secoli dal punto di vista sociale e culturale, e il modo in cui simili cambiamenti abbiano potuto alterare la realtà o il modo di rapportarci ad essa. Un cambiamento è stato il passaggio dalla campagna alla città e lo sviluppo di nuovi modelli urbani e di civiltà. A questo proposito Eric Hobsbawm nota che questa forma di cambiamento strutturale della modernità ha comportato, almeno nei paesi dell' Ocse, la scomparsa dei contadini come classe - forse il mutamento sociale più profondo dell'ultimo millennio. Più di recente, il processo di urbanizzazione ha comportato anche una profonda rivoluzione sociale e culturale. A partire dal 1945 ad esso si è associata una crescita di affluenza senza precedenti specialmente nei paesi dell'Ocse.[5] In un'epoca d'istruzione massiccia e di comunicazioni di massa, l'enorme crescita del potere produttivo si è legato anche all'emergere di una diffusa cultura giovanile, al femminismo ed altri movimenti sociali.

Di fronte alle grandi trasformazioni connesse all'inizio della modernità, le nostre considerazioni immediate sono che ci troviamo in una fase di passaggio, di trasformazione ontologica, in cui si impone la necessità di una ridefinizione delle conoscenze e delle esperienze costitutive della nostra vita, delle nostre strutture mentali - per esempio il modo in cui concepiamo le istituzioni sociali e le forme d'autorità politica nell'epoca della globalizzazione del capitalismo, che appare trionfante dopo il crollo dell'Urss e dei regimi a guida comunista.[6]

Gramsci ha una visione strategica, di lunga durata, del processo di trasformazione storica. Ha un'idea della modernità connessa a nuovi modelli di razionalità e concetti del politico. Inoltre, egli vede l'emergere della modernità non soltanto in termini di sviluppo del capitale e della società liberale, con l'annessa trasformazione della terra, del lavoro e del denaro. Per Gramsci lo sviluppo del capitale e della modernità implica nuove forme di civiltà. A suo giudizio, le rivoluzioni borghesi in Europa sono nate anche sulla base della diffusione delle idee e delle esperienze derivanti dall'Illuminismo alle forze culturali che più tardi si sono associate alla nascente società liberale:

«[L'Illuminismo] fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l'Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia.
     In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Più tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei più piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune».[7]

Quanto Gramsci descrive, è una autentica rivoluzione che ha la capacità egemonica di estendersi e comprendere gli interessi dei gruppi sociali subordinati o subalterni all'interno di un progetto di emancipazione politica di ampio respiro, progressivo. Gramsci parla di una magnifica rivoluzione fondata su di una «coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni».

Si può condividere o meno questo giudizio storico, resta il fatto che il punto chiave è il metodo che Gramsci utilizza per analizzare una trasformazione storica. Vale a dire che egli sa che la questione di un cambiamento rivoluzionario repentino, che appare spontaneo, è legata a radici storiche più profonde, e che la costituzione storica della soggettività politica e della coscienza è il punto centrale del processo. In altri termini, le innovazioni politiche associate alla Rivoluzione francese (ad esempio, come risulta dal repubblicanesimo di Tom Paine) vanno analizzate sulla base delle trasformazioni della coscienza e della soggettività politica che si sono sviluppate durante l'Illuminismo.

In tal modo, nell'analisi del rapporto tra Illuminismo e sviluppo del potere borghese Gramsci ha indicato anche le origini di una particolare forma di civiltà europea funzionale al mutamento della politica e della vita sociale in una prima forma di "globalizzazione". Questo cambiamento ha coinciso con l'emergere del moderno capitalismo industriale e con l'intensificarsi delle relazioni sociali ad esso connesse che dall'Inghilterra si sono estese su scala mondiale (la creazione di un mercato mondiale).

In tutto ciò, l'elemento centrale non è stata l'innovazione tecnologica in quanto tale, bensì un processo di innovazioni di carattere teorico e politico ispirato, da una parte, alle idee di Adam Smith (ed altri come Ricardo), e dall'altra, alle idee di Bentham e agli utilitaristi, utilizzate da un apparato statale con un notevole potere coercitivo.[8]

Così, la creazione della società di mercato con l'annessa ideologia del "miglioramento" - una forma di società completamente nuova con le sue pratiche sociali - delinea uno stato liberale forte e riorganizzato che potrebbe eliminare le forme di regolazione e le pratiche mercantiliste all'interno di un processo che oggi potremmo definire di «trasformazione sistemica» (per esempio il ruolo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale nei passati regimi comunisti dell'Europa orientale).[9] Nel corso del XVIII e XIX secolo, in Inghilterra il territorio, la gente e i mezzi di scambio sono stati progressivamente ridisegnati dall'azione politica, così da diventare parte di una nuova ontologia sociale (ciò che Polanyi ha definito «merci fittizie» della terra, del lavoro e del capitale), sostenuta da nuove strutture giuridico-costituzionali. Queste "finzioni", dunque, sono diventate reali quando sono state regolate dal punto di vista politico e giuridico, quando si è cominciato a pensare ad esse come fattori della produzione, in un processo che si estendeva geograficamente e acquistava spessore sociale mano a mano che si costruiva il nuovo ordine capitalistico su scala mondiale. Insomma, questo cambiamento ha comportato l'emergere di una nuova ontologia sociale e dunque una nuova struttura della realtà, in parte prodotta dall'azione politica.[10]

I mutamenti nell'ordine mondiale a partire dal 1945

Nella misura in cui si può dire sia esistita, la costruzione di una forma gramsciana di egemonia internazionale del XIX secolo ha seguito il cammino dello sviluppo economico tracciato dall'industrializzazione inglese, con un nucleo di stati concordi con le nuove regole commerciali e finanziarie della Gran Bretagna. La dimensione pubblica e privata dello stato allargato inglese si rifletteva nell'importanza della City di Londra, che aveva un ruolo di coordinamento nelle questioni di politica finanziaria e di scambio. Infatti, dopo la sconfitta di Napoleone, la leadership inglese poteva vantare, almeno riguardo ad un gruppo di stati, una certa credibilità, in parte grazie alla sua supremazia navale. Pertanto, il sistema mondiale del XIX secolo non si fondava esclusivamente su di una potenza preponderante all'interno delle relazioni tra gli stati europei (e le potenze nascenti di Usa e Giappone). Il nuovo ordine mondiale rifletteva, piuttosto, un mutamento di equilibrio tra gli stati e le forze sociali (un equilibrio di forza interna ed estera), come pure la ratificazione di una gerarchia mondiale razziale.

Nella configurazione di ogni ordine mondiale, infatti, come ha messo in evidenza Robert Cox, entrano in gioco diversi tipi di forze sociali, - di idee, istituzioni, risorse materiali, così come diverse forme di produzione, di stato e di ordine mondiale.[11] Così, prendendo le mosse dal sistema di stati moderno nato in Europa con la pace di Westfalia del 1648, sotto il dominio se non l'egemonia delle classi emergenti delle Province Unite, si è avuta una continuità formale consistente in un sistema di stati con i suoi principi d'azione basati sul concetto di sovranità. Dopo il 1945 si è verificato un processo di proliferazione che ha esteso il modello di Westfalia di sovranità statale alle ex colonie imperiali. Contemporaneamente, il sistema di sicurezza è stato disciplinato e dominato da un duopolio strategico di superpotenze, segnando la non ulteriore applicabilità della pace di Westfalia a rischio di una guerra totale e di un annientamento totale, ipotesi questa che avrebbe implicato non solo l'uso di armi nucleari, ma anche una produzione di massa e una politica di massa (inclusa la mobilitazione nazionale) negli stati-nazione.

L'ultima fase del sistema di stati legati al modello di Westfalia è in parte connessa al venir meno delle strutture di produzione fordista e alla loro identificazione con particolari territori e giurisdizioni. Questa forma "nazionale" di sviluppo capitalistico, con metodi flessibili e una organizzazione della produzione globale, sta gradualmente cedendo il passo al post-fordismo. Per alcuni aspetti la produzione si è potentemente femminilizzata, dal momento che in gran parte del mondo più donne sono entrate nel mercato del lavoro. Una tale ridefinizione delle relazioni produttive ha determinato alcuni cambiamenti nell'identità politica (nazionale), così come nella forma dello stato. Possiamo chiamare questo processo internazionalizzazione o globalizzazione dello stato, fenomeno questo non completamente nuovo. Il sistema di Westfalia, per esempio, è stato la controparte politica nazionale rispetto all'emergere del capitalismo mondiale. In questo senso, esso è stato "internazionalizzato" sin dall' inizio, e questa internazionalizzazione ha preso diverse forme. Per di più il bipolarismo delle superpotenze durante la Guerra fredda ha implicato una internazionalizzazione delle strutture politiche e di difesa degli stati alleati. A partire dal 1945, a questo processo si è connessa una ristrutturazione globale della produzione e dell'economia. Se accettiamo l'idea di internazionalizzazione - o addirittura di globalizzazione - dello stato, andiamo al di là dell'assunto tradizionale delle relazioni internazionali, secondo il quale gli stati, indipendentemente dalle loro diversità, da un punto di vsta di politica internazionale hanno essenzialmente lo stesso carattere. É importante, piuttosto, analizzare le diverse forme di stato e i cambiamenti che subiscono nel tempo, dando vita a diversi tipi di ordine internazionale o mondiale. In termini gramsciani, è necessario analizzare lo stato allargato (stato + società civile) per interpretare la formazione della politica globale.

Come interpretare, allora, la fase contemporanea di tale cambiamento globale? Un modo per farlo è mettere a fuoco la relazione tra forme di stato e politica globale, usando il concetto gramsciano di egemonia contrapposto all'uso convenzionale fatto dai cosiddetti "Realisti" nelle Relazioni internazionali, che hanno considerato l'egemonia come il dominio di uno stato sugli altri. Il concetto gramsciano suggerisce una problematica più complessa che comprende coercizione e consenso quanto guida politica, autorità e legittimazione. La base dell'egemonia va trovata nel rapporto tra stato e società civile, sia all'interno che attraverso gli stati-nazione. Il concetto gramsciano di egemonia può servire a mostrare che c'è stata una relativa conformità politica ed economica tra i maggiori stati e gli elementi dominanti emersi dalle società civili dei paesi dell'Ocse approssimativamente tra il 1950 e il 1970. Queste relazioni erano tenute insieme da vincoli di sicurezza e di tipo politico-militare sotto la guida dei vertici degli Stati Uniti. Il potenziale accordo mondiale di forze economiche era vincolato da sistemi nazionali di pianificazione economica, regole e responsabilità politica, spesso nella forma del capitalismo di stato e del corporativismo. Le relazioni economiche e la soluzione dei conflitti economici internazionali sono state istituzionalizzate sia in consigli privati informali che nelle istituzioni di Bretton Woods come negli accordi interstatali, in un'epoca di elevata crescita economica, rispetto a quella degli anni '70-80.

Il risultato politico di queste intese era una "alleanza organica" relativamente flessibile (comprendente il Nord America, i paesi della Comunità Europea e il Giappone in un processo di organizzazione internazionale congiunto). Caratterizzata da forme di pluralismo istituzionale e politico, questa alleanza fu sostenuta da legami politici, militari ed economici trasversali (coinvolgendo organizzazioni come la Nato e gli accordi di sicurezza Usa-Giappone). Si può interpretare questa intesa come la controparte politica all'internazionalizzazione del capitale emersa a partire dal 1945. Tali accordi, quindi, contenevano un elemento della loro stessa trasformazione e di potenziale superamento. Questa "alleanza organica" può essere paragonata con le strutture relativamente fragili, "tattiche"dell'ex Unione sovietica e i suoi alleati, crollate repentinamente alla fine degli anni '80.

Tuttavia, la globalizzazione economica ha indebolito questa egemonia integrale in vari modi. C'è stato, per esempio, uno spostamento ideologico verso il neoconservatorismo in politica e il neoliberismo in economia. Si è verificato un mutamento politico che ha marginalizzato il lavoro e i partiti socialdemocratici dai centri di potere (in alcuni paesi, come la Germania, meno che in altri, come ad esempio gli Usa, la Gran Bretagna, il Giappone). Ciò che io chiamo il "terreno di contestazione politica" si è spostato a destra sin dai primi anni '70 nei paesi dell'Ocse.

C'è stato, quindi, un mutamento nella forma dello stato, causato dalla ristrutturazione economica e finanziaria e dallo spostamento a destra dell'asse politico neo-liberale. Il blocco di teorie e pratiche che danno identità e direzione al rapporto tra società civile e società politica, negli ultimi venti anni, è mutato in molte delle più grandi nazioni capitalistiche e nei paesi del Terzo mondo. Se le forme di sviluppo legate a questo slittamento verso il neoliberismo siano sostenibili dal punto di vista politico, economico ed ecologico, sarà una questione centrale nel prossimo decennio. L'analisi della situazione mostra l'emergere di un ordine meno consensuale, sempre più basato su una politica di supremazia e coercizione che su un ampio consenso popolare - nonostante il largo strato che beneficia dei vantaggi della ristrutturazione neoliberale (per esempio le classi medie nel Terzo mondo). Gli anni '80 e '90 si possono definire come una fase di crisi di egemonia e di declino nella coerenza dell'ordine postbellico, caratterizzati dalla rottura politica ed economica e dal caos, da modelli insostenibili di crescita demografica e di urbanizzazione, da degrado ambientale, dalla povertà e dalla fame, da fughe di massa e movimenti migratori.

Globalizzazione: l' «occasionale» e il «permanente»

Nell'analizzare alcuni dei modelli attuali di globalizzazione, mi servirò di concetti neogramsciani come rivoluzione e modernità, crisi organica e distinzione tra egemonia e dominio, distinzione particolarmente importante dal momento che l'attuale epoca di globalizzazione neoliberale sembra essere più vicina ad una politica di supremazia che di egemonia.

A questo scopo, considerando la politica mondiale negli anni '90, possiamo utilizzare il metodo dello storicismo gramsciano e distinguere, nell'analisi di crisi che si possono prolungare per decine di anni, l'«occasionale» dal «permanente».[12] Potremmo dire, in una prospettiva di longue durée, di essere testimoni su scala mondiale di una nuova fase della rivoluzione borghese (con tutti gli elementi ad essa connessi) con le sue origini non solo nella Rivoluzione francese, nelle sue «ondate successive», ma anche nella Gloriosa Rivoluzione del 1688 in Inghilterra. È in questo senso che specifiche forme istituzionali della modernità - per esempio la società di mercato e le forme liberali dello stato - si possono dire globali. In questo contesto, l'azione politica dello stato inglese e il concerto di stati europei sono stati particolarmente importanti nel XIX secolo come quella degli Usa e del G 7 negli anni '90: la globalizzazione è sia geoeconomica che geopolitica.[13]

Tuttavia, a partire dagli anni '70 si è avuta una fase di incertezza, di mutamento continuo da mettere in relazione col fatto che gli aspetti chiave di tipo istituzionale della realtà storica stanno cambiando: per esempio, forme di stato, di mercato e di società civile in forme di economia politica di tipo locale, nazionale, regionale e mondiale. Ciò ha determinato cambiamenti nel modo di percepire il mondo, comprenderlo e rapportarsi ad esso: un mutamento nell'ontologia dell'ordine mondiale che esprime la forma e la natura di una crisi organica che sta influenzando la natura profonda delle nostre forme di civiltà.[14]

Si può dire che questa crisi, nel suo significato immediato o «occasionale» abbia avuto le sue origini congiunturali nella crisi economica mondiale dei primi anni '70. Da quel momento ha cominciato a prendere il sopravvento nella politica di ristrutturazione mondiale un particolare modello di sviluppo capitalistico, il neoliberismo angloamericano. Questo modello, a sua volta, si basa su una serie di istituzioni ed esperienze che tendono a promuovere una riconfigurazione sociale di priorità, linee politiche e risultati del tipo detto "darwinismo sociale". La conseguenza più pervasiva - e più perversa - di questo mutamento è stato il rapido approfondirsi dell'ineguaglianza sociale in alcuni stati e società, e fra le stesse nazioni. È opinione di molti - dai vecchi disillusi thatcheriani ai leaders laici e religiosi, compreso il Papa, e persino di un rentier plurimiliardario pentito come George Soros - che il capitalismo ha portato ad una fase di brutalità e crimini, specialmente nel Terzo mondo e nell' ex Unione Sovietica, e che la riduzione della vita sociale al mercato è incompatibile non solo con la popperiana Società aperta (come desiderata da Soros) ma anche con ogni idea di società "civile". Stando così le cose, possiamo essere sicuri che non solo non c'è una "fine della storia", ma anche che non può mai emergere un mondo completamente neoliberale a causa delle contraddizioni politiche, economiche, sociali, ecologiche del neoliberalismo, per non parlare poi della sua bancarotta morale.

In realtà, nell'analisi delle forme neoliberali di globalizzazione, quando parliamo della giustizia e del potere emerge una politica di supremazia, piuttosto che una politica di giustizia e di egemonia, ciò che è poi segno di precarietà di questa forma di ordine mondiale. Col termine "supremazia" voglio intendere la predominanza di un blocco di forze non egemonico che esercita in una fase determinata il dominio su popolazioni che appaiono frammentate, finché emerge una forma coerente di opposizione. Nella fase attuale il blocco dominante si può paragonare a un sistema transnazionale di libera impresa dipendente per le proprie condizioni di esistenza da una serie di complessi di stato-società civile. Esso appare nello stesso tempo "fuori" e "dentro" lo stato: determina parte delle strutture politiche "locali" e "globali" e ha come scopo centrale l'intensificazione della disciplina del capitale all'interno dello stato (il workfare neoliberale o "competizione") e della società civile. Così, da questo disegno delle strutture di potere della politica mondiale contemporanea, con le relative varianti locali, viene fuori un blocco storico transnazionale il cui nucleo comprende in larga misura elementi degli apparati statali del G 7, il capitale transnazionale (l'industria, la finanza e il settore dei servizi) ed anche i lavoratori che godono di privilegi e le imprese più piccole (piccole e medie imprese impiegate come appaltatrici o fornitrici, import-export, società di servizi come agenti di cambio, contabili, società consulenti, lobbies, impresari culturali, architetti, designers).[15] In poche parole, le pressioni finanziarie hanno spinto i governi ad una ridefinizione dell'azione ritenuta auspicabile e necessaria dagli stessi. Si sta inoltre verificando un passaggio dalla socializzazione dei fondi di previdenza contro i rischi (cure sanitarie, pensioni, assicurazione contro la disoccupazione ecc.) verso sistemi privatizzati. In questa situazione il singolo, uomo o donna che sia, deve lottare nel mercato per la sua sopravvivenza e per difendersi contro malattie di ogni sorta o le debolezze e vulnerabilità della vecchiaia.

La concentrazione di capitale si è ormai realizzata su scala mondiale ed ha proceduto lungo le linee anticipate da Marx. Nel 1992, per esempio, le 300 maggiori multinazionali controllavano circa il 25% delle risorse produttive mondiali, pari a 20 mila miliardi di dollari; le 600 maggiori multinazionali con vendite annuali sopra il miliardo controllavano oltre il 20% mondiale del valore aggiunto complessivo dell'industria e dell'agricoltura.[16] La maggior parte dei lavoratori delle multinazionali sono ben pagati ed hanno condizioni di lavoro migliori di quelli delle imprese nazionali. Direttamente o indirettamente le multinazionali impiegano oltre il 5% della forza lavoro mondiale, sebbene controllano oltre il 33% delle risorse globali.[17] Nei mercati finanziari, dal 1994 il flusso giornaliero di scambi con l'estero su scala mondiale può aver superato i mille miliardi o «approssimativamente il totale degli scambi esteri in conto di tutte le banche centrali delle maggiori nazioni industrializzate».[18] Ciò nonostante il fatto che probabilmente non più del 10% delle transazioni finanziarie totali sono connesse all'attività economica reale (cioè ai flussi commerciali finanziari o ai movimenti di capitale). La maggior parte, è legata all'attività speculativa, al riciclaggio di denaro, all'evasione fiscale e alla compensazione del rischio. Il livello di globalizzazione e centralizzazione del capitale raggiunto significa che l'azione politica su scala mondiale deve non solo via via riprodurre ed estendere i modelli di accumulazione esistenti, ma anche aprirsi democraticamente alla sinistra e alle altre forze progressive e su di esse concentrare il proprio controllo.

Una manifestazione concreta dell'insieme delle forme dirette del potere del capitale è il rapporto tra l'elevato grado di speculazione e penetrazione del capitale mondiale e quello che chiamo «nuove strutture costituzionali» che hanno fatto del libero accesso ai paesi dell'Ocse e ai paesi emergenti una condizione di politiche governative, favorendo l'isolamento dei processi economici e delle istituzioni di rappresentanza democratica (per esempio gli statuti e la prassi dell'Organizzazione mondiale del commercio). Una tale struttura di potere configura le condizioni politiche e costituzionali dei Programmi di Adattamento Strutturale e di altre forme di assistenza tecnico-finanziaria agli stati meno sviluppati (il Terzo mondo e l'ex blocco dell'Est), come, per esempio, le istituzioni finanziarie internazionali e l'Unione Europea.

In questo contesto, di estensione e penetrazione del capitale come rapporto sociale, c'è l'intensificazione di un mutamento individuato da Marx nei Grundrisse nel passaggio dalla subordinazione formale del lavoro al capitale alla subordinazione reale (che corrisponde al passaggio dal lavoro per il capitale a quello come parte del capitale). Come è stato notato, ciò è legato anche ad una mercificazione diffusa della vita sociale (l'adattamento dei rapporti sociali alla dimensione del lavoro e alla natura delle merci). Il concetto marxiano di feticismo delle merci (il fatto che lo scambio nella forma del denaro maschera le condizioni reali e la lotta legata alla loro produzione) può essere visto in relazione al concetto espresso dalle posizioni culturali dominanti che hanno accompagnato questa trasformazione, nella misura in cui siamo in grado di identificare la forma sociale di base che esso presuppone: il modo in cui il sistema di mercato plasma prospettive, identità, aspettative e concezioni dello spazio sociale. Kees van der Pijl aggiunge che il capitale per eccellenza nell'attuale configurazione storica è costituito dalle forme istituzionali del capitale monetario, laddove questo si presenta come una massa concentrata, soggetta al controllo dei banchieri.[19] Come tale, confronta il lavoro come un «potere dominante e astratto». Tuttavia, lo stato deve anche intervenire per far fronte alla domanda di lavoro, per svolgere una funzione di controllo e di protezione del territorio, per sostenere il valore del denaro, ecc. Il che significa che è lo stato, col suo potere, a trovarsi nella posizione di principale responsabile: è infatti attraverso l'impiego del potere statale che i rappresentanti del capitalismo globale esercitano gran parte della loro influenza - cioè il potere del capitale è nello stesso tempo diretto e strutturale.

Pertanto, la formazione sociale dominante del nostro tempo è data dal concetto neoliberale di "globalizzazione". In tale contesto, privatizzazione e transnazionalizzazione del capitale procedono insieme e, da un punto di vista sociale generale, sono insieme inevitabili o desiderabili. In questo senso, il concetto di globalizzazione assume aspetti ideologici positivi e al tempo stesso negativi. Un aspetto positivo è l'equazione di libera competizione e libero scambio (la mobilità del capitale totale) e l'efficienza economica, welfare e democrazia e un mito del progresso sociale potenzialmente illimitato, come mostrano gli spot pubblicitari televisivi o altri media, e i rapporti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. L'aspetto negativo consiste nel fatto che le forze del mercato neoliberale hanno reso marginali ogni alternativa al sistema non incentrato sul mercato, in particolare quelle delle forze politiche di sinistra. Pertanto, alcuni vedono la globalizzazione come il dispiegarsi di un commerciale mito hegeliano del mercato capitalistico ("il modello di informazione globale"), come l'Idea Assoluta: i mercati finanziari mondiali, seppur forze enormi e implacabili, sembrano le sole in grado di "civilizzare" e governare positivamente.[20] Mentre alcuni eguagliano la globalizzazione neoliberale alla "fine della storia", altri sono meno ottimisti, come è implicito nell'invocazione dell'avvilito e patetico "Ultimo Uomo" di Nietzsche, per Fukuyama la vittoria del liberalismo è vittoria assoluta, ma anche vuota, dato che l'ultimo Uomo post-comunista (dove il liberalismo è la sola alternativa globale) è addirittura condannato alla noia: una ripetitività morbosa simula la morte, condizione che può essere alleviata dal satellite televisivo che manda in onda la Coppa mondiale di calcio.[21]

Naturalmente, il processo di globalizzazione non è passibile di spiegazioni riduttive, poiché ha molti aspetti e dimensioni e coinvolge idee, immagini, simboli, musica, moda e una varietà di gusti e rappresentazioni di identità e comunità. Nelle sue attuali rappresentazioni ideologiche e mitiche, tuttavia, il concetto serve a reificare un sistema economico globale dominato da molti investitori istituzionali e società transnazionali che controllano il volume delle risorse produttive mondiali e che costituiscono i principali flussi nel commercio mondiale e nei mercati finanziari.

Da una prospettiva storico-sociologica, allora, una caratteristica che contraddistingue la società mondiale contemporanea è il modo in cui sempre più aspetti della vita quotidiana nei paesi dell'Ocse vengono pervasi dai valori del mercato, dalle rappresentazioni e dai simboli, così come il tempo e la distanza appaiono ridotti dall'innovazione tecnologico-scientifica, dalla supermobilità del capitale finanziario e da vari tipi di flussi di informazione. Questo fenomeno ha caratterizzato molteplici aspetti della vita familiare, la pratica religiosa, l'impiego del tempo libero e la natura stessa. I processi di mercificazione hanno progressivamente circondato aspetti della vita fino a poco fa considerati inalienabili.[22]

Sempre più spesso alle aziende agricole e farmaceutiche sono accordati i diritti sui geni umani e i sui tessuti, su piante, semi e ibridi animali, incluso il Dna di "gente a rischio". Questi diritti di proprietà privata "intellettuale" stanno per essere internazionalizzati ed estesi nei regimi legali di tutto il mondo dalla nuova Organizzazione mondiale del commercio. Simili sviluppi si sono avuti, in molti dei paesi dell'Ocse, in occasione di qualche ridotto dibattito politico sull'impatto dell'ingegneria genetica e biotecnologica, per non dire della privatizzazione delle forme di vita.[23] Nello stesso tempo una vasta massa è praticamente esclusa dal godimento dei frutti della produzione mondiale.

Possiamo, quindi, dire che la globalizzazione del XX secolo è forse compresa meglio come parte di un percorso storico più ampio di cambiamento strutturale della modernità. Le questioni legate a questo processo contribuiscono a dare forma e significato a un tipo di ordine mondiale che assume le vesti del dominio piuttosto che dell'egemonia, vale a dire che esso esercita forme di dominio su popolazioni che appaiono frammentate e su forme di resistenza localizzate. Però, l'apparente vittoria delle forze neoliberali legate al potere e alla ricchezza delle multinazionali non è né permanente né semplicemente occasionale. Il passaggio ad un sistema mondiale più globale non è completo, né è una trasformazione politica e sociale pienamente realizzata. Ma rimane vero che, come nota Kees van der Pijl, in una fase di globalizzazione neoliberale, e di «fatale inversione», il capitale appare come una forza che dà vita - o viviamo nel mercato mondiale o periamo - ; questo mentre circa il 30% della forza lavoro mondiale è disoccupata. Tuttavia Pijl ci ricorda che la tendenza di lungo termine verso la disparità tra le classi e il pauperismo è stata considerata da Marx come un segno di vecchiaia del capitale. Egli cita il rapporto del UNDP Human Development Report 1996, che metteva in evidenza come 358 plurimiliardari hanno concentrato risorse che oltrepassano le entrate annuali totali del 45% della popolazione mondiale, che è di 3,2 miliardi di persone, una concentrazione stupefacente di ricchezza che riflette il potere crescente del capitale nella lotta contro il lavoro su scala mondiale.[24]

Resistenza ed egemonia: emergerà un nuovo mito-principe?

Per rendere l'idea di questa lotta si può dire che quanto ha cominciato ad emergere nella politica mondiale durante gli anni '90 è qualcosa di simile al «doppio movimento» di cui parla Polanyi. Il movimento in questione è il tentativo dei movimenti storici antagonisti di riaffermare il controllo sociale sul movimento di liberazione delle forze produttive del capitale, determinando così scelte sociali alternative. I due casi di cui parla Polanyi si riferiscono il primo alla fine dell'Ottocento e l'altro al periodo tra le due guerre, dopo i tentativi falliti negli anni '20 di restaurare un ordine economico liberale sotto il predominio angloamericano. Oggi possiamo mettere in relazione la metafora del «doppio movimento» con quelle forze politico-sociali che vogliono affermare un controllo più democratico sulla vita sociale e organizzare gli aspetti della produzione per raggiungere su una più ampia base gli scopi sociali, attraverso e all'interno dei vari tipi di civiltà, cosa che sottende una critica della bancarotta morale e delle conseguenze sociali dell'applicazione ristretta di un crasso materialismo consumistico connaturato alla teoria e alla pratica neoliberale.

Ci sono ovviamente delle differenze fra la fase tra le due guerre e gli anni '90. Alla luce delle esperienze degli anni '90, possiamo definire buona parte del mondo- in mancanza di un'espressione migliore - non solo una forma di disciplina di mercato, ma anche, come molti dicono, di caos organizzato con «molti sintomi morbosi». Pertanto, si tratta senza dubbio un fatto strutturale, organico, che si lega all'espansione delle idee e delle pratiche del laissez faire ed è sostenuto politicamente da una minoranza piuttosto agiata della popolazione mondiale (questa minoranza è più estesa di quella degli anni '30 in parte a causa dell'estensione della partecipazione politica e dello sviluppo economico). Nello stesso tempo si tratta di un processo caotico, in cui l'integrazione accelerata del mondo in un singolo mercato coinvolge, a partire dalla metà degli anni '70, anche la disintegrazione del patto sociale e delle forme di stato esistenti - tanto che la distribuzione dei beni sociali essenziali diventa oggi insostenibile. Questo caos spesso si aggrava a causa delle azioni di élites politiche o delle classi dominanti strumentali, irresponsabili o corrotte. In questo quadro, un darwinismo sociale inesorabile tende a far aumentare il livello di diseguaglianza economico-sociale e di emarginazione politica in molte parti del mondo e dialetticamente genera una crescente disillusione nei confronti della politica organizzata convenzionale e il desiderio politicamente insoddisfatto di un'alternativa. In questo contesto, c'è un senso pervasivo di crisi strutturale, un esteso sentimento di incertezza e di ansietà, di esaurimento di alternative politiche e in alcune manifestazioni, un desiderio ardente di "ordine": un nuovo ordine o il tentativo di ricostituire il vecchio. Questa situazione si avvicina alla condizione di disorientamento e di cambiamento continuo che Giovanni Arrighi ha individuato nei «caos di sistema» del 1640, del 1790 e del 1930,[25] quando la credibilità e la capacità di far presa del vecchio ordine e di una serie di alternative politiche era al minimo storico.

In realtà, come Van der Pijl ha messo in evidenza, appena la disciplina del capitale si impone con più forza, incontra resistenze all'interno di 3 larghi processi di lotta di classe. Si possono teorizzare, infatti, punti di resistenza e quindi di azione collettiva che superano una visione singola dell'azione politica, attraverso l'analisi delle varie dimensioni della disciplina e del potere del capitale. Il primo fa riferimento a ciò che Marx definisce «accumulazione originaria». Questo riguarda il caso in cui la forma della merce incorpora nella dimensione del capitale i beni precedentemente non mercificabili e i servizi, per esempio attraverso la privatizzazione e la riduzione a merce, in alcuni casi agendo in modo violento, attraverso l'appropriazione privata delle terre comuni (come il movimento delle recinzioni in Inghilterra, e le nuove recinzioni legate all'"apertura" dell'Amazzonia, dislocando popolazioni per costruire dighe). Il secondo tipo di condizioni riguarda il processo di produzione capitalistico, dove buona parte di quanto avviene mostra che il nuovo mondo dell'alta tecnologia, della conoscenza basata sul capitale, è lontano dal creare una società capace di offrire una certa qualità della vita, mentre il modello preminente è quello dell'intensificazione del lavoro, con un maggior tempo di lavoro e un tasso di sfruttamento in aumento da una parte, ed una massa di disoccupazione ed emarginazione dall'altra. Ciò è vero soprattutto nel senso messo in evidenza da Van den Pijl, e cioè che lo sviluppo del capitale «ha ridotto il numero di persone il cui destino è legato fondamentalmente all'ordine dominante».[26] Il terzo tipo di condizioni e quindi di forze di resistenza si lega all'analisi della riproduzione sociale del lavoro in senso lato, dove per esempio la razionalità micro-economica si espande nelle sfere di riproduzione della casa, della scuola e delle istituzioni della società civile più in generale. Questi cambiamenti sono legati anche allo sfruttamento intensivo della natura come pure del corpo umano come luogo di accumulazione. Ciò solleva la questione di una ampia crisi della riproduzione sociale e della sostenibilità nel lungo periodo del sistema mondiale neoliberale.Vale la pena di considerare questa situazione soprattutto alla luce delle gravi difficoltà in cui versa la maggior parte delle donne del Terzo mondo, dove un aspetto dell'estesa mercificazione della vita quotidiana, che spesso passa inosservato agli economisti politici occidentali, è il fatto che la mercificazione tende a operare, seppure indirettamente, con un pregiudizio di genere. Dato che molte delle eventuali e, magari, ultime vittime di questo processo sono non solo donne, ma anche bambini, si può mettere in relazione questa situazione con le tendenze di darwinismo sociale sottolineate precedentemente dando una piega femminista al tema di Goya di Saturno che divora i suoi figli, dove il capitale, stando così le cose, è veramente divenuto più distruttivo che creativo[27]

Oltre alla resistenza, ciò che la sinistra e le altre forze progressive devono fare, è riconsiderare i propri criteri di azione e di rappresentanza politica e vedere come sintetizzare e canalizzare il potenziale di resistenza in un progetto politico creativo che assume la forma del moderno principe come mito di mobilitazione. Ci dobbiamo chiedere, in altre parole, quale sarà il nuovo principe (o i nuovi principi) della giustizia sociale che agirà sia come criterio di giudizio nella scelta della politica più adatta a sfidare il mito del progresso e dell'accumulazione illimitata e del consumo associati al neoliberismo. Quali forme di identificazione e di potenziale comunità politica si possono individuare per mobilitare e consolidare le forze che sostengono queste iniziative? A questo proposito Gramsci scrive:

«Il moderno principe, il mito principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione».[28]

Ciò significa anche che gli intellettuali dovrebbero analizzare l'ordine mondiale con un certo «pessimismo dell'intelligenza» nonché un «ottimismo della volontà». Significa anche considerare i rapporti di forza, inclusa la forza militare e quanto Fernand Braudel, in The Structures of Everyday Life, ha definito i «limiti del possibile», cioè i "rapporti di forza" in termini ecologici, sociali e politici. In linguaggio gramsciano, il problema è come costruire un blocco storico transnazionale egemonico alternativo - analogo al partito politico internazionale - un "noi" che sia in grado di contenere una nuova costellazione di forze sociali democratiche e progressive. Esso deve essere attivo e nello stesso tempo non definito, in perenne sviluppo, plurale, 'comprensivo' e flessibile, ed inoltre deve essere forgiato in termini di ottimismo politico fondato sulla realtà, cioè creativo e lungimirante. L'idea di una volontà politica collettiva quindi concerne la possibilità di una organizzazione politica su scala mondiale o una comunità simbolica, virtuale dei movimenti antagonisti progressivi. Come abbiamo visto, il concetto di Polanyi del «doppio movimento» qui ci serve per pensare quanto detto da un punto di vista mondiale, poiché, come negli anni '30, alcuni dei movimenti alternativi attuali tentano di riaffermare la democratizzazione mentre altri sono fortemente reazionari: la risposta alla sfida politica della globalizzazione neoliberale ha cominciato a manifestarsi in modi complessi. Una tale comunità alternativa cercherebbe non solo di restringere il raggio d'azione della mercificazione nella definizione di forme sociali e istituzioni, ma anche di sviluppare alternative reali e concrete. É importante, allora, studiare questa potenzialità nella forma dei movimenti sociali (per esempio alcuni tipi di femminismo e di gruppi ecologici) come nei partiti politici e in altri istituzioni della società civile e in questo modo porre la domanda di quali siano i problemi chiave per uno studio critico dell'economia politica e dell'ecologia nell'immediato futuro. Un limite fondamentale a questo potenziale è forse dato dal fatto che la nostra immaginazione politica può ancora essere intrappolata da una visione dell'ordine mondiale che confina l'azione politica al territoriale e allo stato - sebbene i limiti e le opportunità di un ordine mondiale più globale dal punto di vista economico sono sempre più palpabili. Dobbiamo allora ripensare le questioni della politica in un quadro di riferimento sia nazionale che globale. In realtà, dobbiamo farlo tentando di ricostruire in una dimensione immaginativa, che va al di là della realtà oggettiva, le basi normative dell'azione collettiva. Questo sforzo richiederebbe il crearsi di un nuovo mito o una forma piuttosto diversa di innovazione politica? In questo caso, come si delineerebbe questa "comunità immaginata" globale e chi ne sarebbe l'autore? E in che cosa potrebbe consistere? È a questo proposito necessario porci la questione formulata da Enrico Augelli e Craig Murphy, «qual'è l'obiettivo a cui l'azione collettiva deve mirare nel tempo storico in cui noi possiamo immaginare di realizzare l'alternativa politica?»[29] Dobbiamo anche avere una chiara visione di cosa è «occasionale» e cosa è «strutturale» nella nostra valutazione della modernità capitalistica e di una egemonia alternativa, alle porte del XXI secolo: allora, quali sono le grandi questioni che "noi" dobbiamo teorizzare e articolare politicamente?

Forse, la più generale di esse riguarda il ruolo dell'educazione e delle pratiche politiche in senso lato per formare una egemonia etica alternativa, conforme alle condizioni di questa fine secolo. Parte di questo compito coinvolge lo studio dell'economia politica in modo che sia possibile studiare e criticare la forma delle trasformazioni associate alla globalizzazione dei modelli di consumo e produzione insostenibili, e l'intensificazione di quanto Walter Benjamin aveva definito il «mondo di sogni di una cultura di massa» cioè la saturazione del nostro mondo simbolico e delle forme di coscienza nell'abbondanza creata dal consumismo. In questo senso, sono catene all'emancipazione umana dal capitalismo non solo i rapporti sociali di produzione, ma anche le forme atomizzate dell'immaginario collettivo.[30] I pensatori di sinistra devono sviluppare una critica di quanto Raymond Williams ha definito il «sistema magico» degli annunci pubblicitari e televisivi e quelle forme di rappresentazione culturale che producono una condizione mentale fantastica mercificata, simile ad un sogno, proiettando una forma di esperienza che è individualizzata e atomizzata.[31]

In altre parole, seguendo l'esempio di Gramsci per promuovere l'emergere di una coscienza collettiva, gli intellettuali di sinistra dovrebbero cercare di mobilitare di nuovo una critica delle istituzioni culturali e politiche e ristabilire il legame nella coscienza popolare tra la questione del consumo e dello sfruttamento crescente, della mercificazione e dell'alienazione nei rapporti sociali, e una ridefinizione della gerarchia e della natura delle forme statuali. E' necessario porre questa questione: cosa significano tali mutamenti nella costituzione della vita sociale delle comunità? Detto altrimenti, quali sono i limiti socio-ecologici degli attuali modelli di potere, della produzione e del consumo? A questo scopo, bisogna mostrare quanto e in che modo si è impoverita la dimensione etica della vita politica ed economica e legare ciò all'economismo delle prospettive prevalenti e delle forze dell'economia politica globale. Dobbiamo mostrare come le tendenze del darwinismo sociale sono associate alla polarizzazione sociale crescente e all'ineguaglianza sempre più estesa sia all'interno che attraverso le forme statuali, in un'epoca in cui il potere finanziario e 'Mammona' sembrano predominare nel definire le alternative economiche e i sistemi di responsabilità politica e di rappresentanza.

É inoltre necessario continuare a sviluppare una ontologia critica che costruisca e, se possibile, estenda i concetti gramsciani per identificare le strutture materiali e mentali di comprensione e azione e le potenzialità di cambiamento dell'ordine mondiale. L'ontologia è un ausilio alla prassi e alla critica, nella misura in cui ci aiuta a spiegare come, in una situazione storica data, le forze dominanti - per esempio il potere crescente della borghesia industriale nella creazione della società di mercato auto-regolato dell'Ottocento sotto uno stato forte - fondano la loro supremazia non solo sulla coercizione ma anche su un'egemonia di tipo corporativo nel quadro politico ad essa conforme: per esempio una forma di economia politica neoclassica ed utilitarista in contrasto con una forma economica morale o l'economia politica del socialismo utopico o marxiano. Più diffusamente, è necessaria una lotta per una politica del sapere e della produzione e l'istituzionalizzazione di determinate potenzialità all'interno delle università e di altre strutture sociali. In altre parole, il processo storico può dare la priorità a certi tipi di conoscenza e prospettive del mondo, ivi comprese concezioni della società e rappresentazioni che hanno significative implicazioni - sebbene ineguali - per il cambiamento sociale, e modi attraverso cui capire e mobilitare la resistenza all'egemonia capitalistica. Questo è il modo in cui Gramsci ha concepito l'innovazione teorica, che è legata alla funzione educativa e politica del partito. È in questo senso che l'ontologia ha una rilevanza politica.

Riferimenti

[1] Ringrazio Greg Chin per i preziosi suggerimenti e l'aiuto nella preparazione di questo saggio, e Scott Redding con il quale ho discusso il lavoro. Inoltre, sono molto grato a Donatella Di Benedetto per la traduzione di questo saggio, e a Stephen Hellman per i suoi utili consigli.

[2] Le associazioni private e le istitutzioni sociali come la famiglia, la scuola e la chiesa sono costituite e compenetrate dalla "società politica" e insieme formano lo "stato allargato". Per un approfondimento di questi rapporti in cui sono coinvolti ciò che chiamo "private international relations councils", nonché multinazionali, apparati di stato, sindacati, università, comitati di esperti, ecc., operanti a livello transnazionale nella fase compresa tra il 1945 al 1989, si veda Stephen Gill, AmericanHegemony and Trilateral Commission, Cambridge University Press, 1990.

[3] Antonio Gramsci, Selections from the Prison Notebooks of Antonio Gramsci, a cura di Q. Hoare e G. Nowell Smith, International Publishers, New York, 1971, v. p. 210.

[4] Tuttavia, la rapida crescita della popolazione e il degrado dell'ambiente su scala mondiale sono senza precedenti - ancora una volta la fase di svolta sembra aver coinciso con l'emergere del capitalismo industriale di fine Ottocento. A partire dal 1950 che si è avuta un'accelerazione tale nell'espansione e nella portata di questo processo, da poter affermare che quasi ogni mutamento ecologico determinato dall'intervento umano si è prodotto a partire da quella data, e la velocità di questo cambiamento è aumentata, se pure con effetti diversi nelle varie regioni del pianeta.

[5] Cfr. E. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Michael Joseph, London, 1994. (Per l'edizione italiana, E. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995).

[6] L'ontologia riguarda la conoscenza dell'universo, l'ordine cosmico e le sue origini; la conoscenza del tempo e dello spazio, l'interazione di forze sociali e natura. L'ontologia è connessa ai principali modelli di riproduzione sociale, all'economia politica di produzione e consumo, alla cultura e ai modelli di civilizzazione. Essa comprende le nostre speranze, i dubbi, le paure e le aspettative, la valutazione dei limiti e delle potenzialità umane. Da un punto di vista gramsciano, dunque, una trasformazione ontologica comprende un cambiamento nella coscienza e nei processi di oggettivazione: le forme di auto-creazione collettiva e il loro rapporto con la struttura. Per una elaborazione di questo concetto si veda S. Gill, “Innovation and Transformation in the Study of World Order,” in S. Gill e J. H. Mittelman, Innovation and Transformation in International Studies, Cambridge, University Press, 1997, pp. 4-25.

[7] A. Gramsci, Selections from the Political Writings, 1910-20, a cura di Q. Hoare, traduzione di J. Matthews, New York, International Publishers, 1977, p. 12. (Per l'edizione italiana, si veda A. Gramsci, Socialismo e cutura, in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino, 1975, p. 25)

[8] A proposito delle idee o invenzioni di Bentham mai praticamente realizzate (per esempio, il suo progetto di prigione perfetta/fabbrica/casa dei poveri, il cosiddetto «Panopticon») e di altre (per esempio le sue idee sulla pubblica amministrazione premesse al concetto centrale di "sorveglianza") si veda K. Polanyi, The Great Transformation: the Political and Economic Origins of Our Times, Boston, Beacon Press, 1957.

[9] Come nota Ellen Wood, l'Economia politica inglese è stata un sistema epistemologicamente fondato non sul razionalismo cartesiano e sulla pianificazione razionale francese come tali, ma piuttosto sulla «mano invisibile» dell'Economia politica classica e la filosofia dell'empirismo con la sua ideologia del "miglioramento", che sanciscono la supremazia della proprietà legata all'etica e alla scienza della produttività e del profitto, l'etica del recinto e dell'espropriazione, tutte elaborate nell'opera di Locke e Petty. Per la Wood è qui l'origine di ciò che chiama «modernità distruttiva» - cioè la tendenza a subordinare i valori umani alla produttività e al profitto. Cfr. E. Meiksins Wood, “Modernity, Postmodernity or Capitalism?,” in Monthly review, vol. 48, 3, 1996, p. 34.

[10] Seguendo la "Gloriosa rivoluzione" del 1688 in Inghilterra, mentre i crimini contro la proprietà erano sempre più severamente puniti, a partire dal 1714 fu tollerato il dissenso protestante: gli eretici non erano più messi al rogo. Come ironizza Christopher Hill, «la Chiesa e il Sovrano cessarono di dipendere, per affermare il loro potere, dal boia». Ci fu un mutamento generale nella letteratura, come l'"assillante dubbio" delle tragedie shakespeariane mentre i poemi di John Donne erano superate dalle "superficiali certezze" di Alexander Pope. Si profusero impegno ed energie sulla società e l'universo, per esempio la meccanica newtoniana e la teoria della gravitazione universale interpretarono l'universo come una macchina che si auto-regola, mentre cominciavano ad emergere le categorie di tempo, spazio, materia, moto, associati alla scienza moderna.

[11] Cfr. Robert W. Cox, Production, Power and World Order: Social Forces in the Making of History, New York, Columbia University Press, 1987.

[12] A. Gramsci, Notebook 4, § 38, “Relations Between Structure and Superstructures,” p. 177 sgg, in Prison Notebooks, vol. II, New York, Columbia University Press, 1996. Traduzione a cura di J. A. Buttigieg. Gramsci analizza gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Egli mette in evidenza che è solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico, «si esauriscono storicamente» tutti i germi nati nel 1789, cioè, quando la nuova classe «che lotta per il potere» dimostra di essere vitale in confronto «al vecchio e al nuovissimo». In realtà, le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppa dopo il 1789 trovano la loro relativa composizione solo con la Terza Repubblica, dopo diversi «rivolgimenti a ondate». Gramsci sottolinea che solo attraverso lo studio accurato di queste ondate (1789-1794; 1794-1815; 1815-1830; 1830-1848; 1848-1870) a oscillazioni più o meno lunghe, è possibile «fissare i rapporti tra struttura e superstrutture da una parte» e dall'altra «il permanente e l'occasionale».

[13] Ellen Wood afferma che il più importante modello storico dell' economia politica del moderno e del capitalismo del XIX secolo è stata l'Inghilterra e non gli stati continentali. Fa anche notare che gran parte del progetto illuministico fu non solo pre-capitalista, ma non capitalista, per esempio lo Stato assoluto è stato «uno strumento centralizzato di estrazione di surplus extraeconomico. In questo contesto, lo stato è una forma di proprietà che dà accesso ai suoi possessori al sovrappiù prodotto dai contadini», Ellen Meiksins Wood, “Modernity, Postmodernity or Capitalism?,” in Monthly Review, vol. 48, n. 3, 1996, pp. 29-30.

[14] Cfr., E. Hobsbawm mette in evidenza che superati gli "anni d'oro", tra il 1950 e il 1970, siamo ora al centro di una nuova età di incertezze, di decomposizione e crisi mondiale a livello economico, politico e sociale. Ciò implica un mutamento dell' auto-coscienza dell'epoca presente. Evidenza di tutto questo si trova in tanti scritti del passato ventennio, contrassegnato dal prefisso "post-". E. Hobsbawm, op. cit.

[15] Per una prima elaborazione di questo concetto di blocco storico, si veda Stephen Gill e David Law, “Global Hegemony and the Structural Power of Capital,” in International Studies Quarterly, 1989, vol. 36, pp. 475-99.

[16] Cfr. “A Survey of Multinationals,” The Economist, 27 marzo 1993.

[17] Cfr. UN Research Institute for Social Development, States of Disarray. The Social Effects of Globalization, UNRISD, Ginevra, 1995, p. 154.

[18] Cfr. Morris Miller, “Where is Global Interdipendence Taking Us?,” Futures, vol. 27, n. 2, 1995, pp. 125-144. Miller cita le statistiche della Bank for International Settlements.

[19] Cfr. Kees van der Pijl, Transnational Historical Materialism, University of Amsterdam, Mimeo, 1996, pp. 27-30.

[20] Cfr. Walter Wriston, The Twilight of Sovereignty. How the Information Revolution is Transforming Our World, New York, Scribner's, 1992.

[21] Francis Fukyama, The End of History and the Last Man, New York, Avon Books, 1992, p. 319.

[22] Herbert Gottweis, “Genetic Engineering, Democracy, and the Politics of Identity,” in Social Text, 1995, vol. 13, pp. 127-52.

[23] John Vidal e John Carvel, “Like Lambs to the Gene Market,” in Guardian Weekly, 1 gennaio 1995, p. 17. Sulla mercificazione del corpo umano che coivolge la vendita di ovuli, sperma, reni e brevetti di geni, si veda Andrew Kimbrell, “The Body Enclosed. The Commodification of Human 'Parts',” in The Ecologist, vol. 25n. 4, luglio-agosto 1995, pp. 134-40. Ringrazio David Law per questo riferimento.

[24] Cfr. Kees van der Pijl, Transnational Historical Materialism: an Outline, University of Amsterdam, Mimeo, 1996, p. 52.

[25] Cfr. Giovanni Arrighi, “The Three Hegemonies of Historical Capitalism,” in Gramsci, Historical Materialism and International Relations, a cura di Stephen Gill, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 148-65.

[26] Cfr. Kees Van der Pijl, Transnational Historical Materialism, University of Amsterdam, Mimeo, 1996, p. 55.

[27] Un murale di Quinta del Sordo poi trasferito in tela , 1819-23, ora al Museo del Prado. Si veda J. F. Chalbrun, Goya, Londra, Thames and Hudson, 1965, p. 228.

[28] Antonio Gramsci, Selections from the Prison Notebooks of Antonio Gramsci, a cura di Q. Hoare e G. Nowell Smith, New York, International Publishers, 1971, p. 129. (Per la traduzione italiana si veda A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, cit. p. 1558).

[29] Cfr. Enrico Augelli e Craig Murphy, Consciousness, “Mith and Collective Action: Gramsci, Sorel and the Ethical State,” in Innovation and Tranformation in International Studies, a cura di Stephen Gill e James H. Mittelman, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 25-38.

[30] Si veda Susan Buck-Morss, The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades Project, Cambridge, Mass, MIT Press, 1989, pp. 253-343.

[31] Cfr. Raymond Williams, “Advertising: the Magic System" in Simon During, ed. The Cultural Studies Reader, London, Routledge, 1993, pp. 320-36.


Stephen Gill is Professor of Political Science at York University, Toronto, ON, Canada.   ^ return to top ^