International Gramsci Society Newsletter
Number 9 (March, 1999): 3-13 < prev | tofc | next >  

Il libro del convegno di Napoli

Lea Durante

È appena uscito, per gli Editori Riuniti di Roma, il volume Gramsci da un secolo all'altro, che raccoglie le relazioni e le introduzioni ai gruppi di lavoro del primo convegno-congresso della Igs, organizzto con il concorso dell'Istituto Italiano per gli studi filosofici, e tenutosi a Napoli dal 16 al 18 ottobre 1997. Dedicato a Valentino Gerratana, curato da Giorgio Baratta e Guido Liguori, il libro ha un significato particolare per l'associazione, e segna senza dubbio una tappa importante non solo rispetto all'attività dell'Igs, ma anche più in generale per l'insieme degli studi gramsciani. Nell'ormai lunga tradizione dei convegni sul pensatore sardo, un rilievo speciale hanno sempre avuto le iniziative per i decennali della sua morte: le circostanze politiche e culturali entro cui tali incontri si sono realizzati di volta in volta, hanno fatto di queste occasioni momenti di verifica e messa a punto non solo dello stato e dei possibili sviluppi degli studi gramsciani (alcuni indirizzi e filoni interpretativi importanti sono stati originati proprio da dibattiti nei convegni dei decennali), ma anche di passaggi significativi e persino cruciali per la politica culturale della sinistra, e quindi per la politica tout court.

Il decennale caduto nel '97, però, è stato caratterizzato da una differenza sostanziale rispetto agli altri, è stato infatti il primo dopo la conclusione della esperienza politica del partito che fu di Antonio Gramsci e che egli considerava il luogo storico deputato allo sviluppo e alla messa in pratica di un pensiero per la trasformazione in senso anticapitalistico della società. Una differenza non da poco, soprattutto se si pensa che la fine del Pci è un processo ormai definitivamente compiuto (si è quasi al decennale, per restare in tema), rispetto al quale non è più possibile continuare a concepire l'intellettuale collettivo nei termini precedenti, e se si pensa che la fine di quel partito si colloca all'interno di una sconfitta reale e planetaria del movimento che rappresentava.

Tutto ciò ha comportato, nel male e nel bene, un anniversario entropico, se così si può dire: da un lato per la perdita del senso di coappartenenza della sinistra alla stessa lotta politica di Gramsci, al suo stesso "secolo", nel significato di Hobsbawm (non a caso la già da tempo avviata [END PAGE 3] riduzione di Gramsci a classico trova oggi una particolare sottolineatura); dall'altro lato per l'affrancamento, definitivo credo, delle letture di Gramsci da un'ottica italocentrica, troppo spesso eccessivamente legata alla più immediata necessità politica, alla più fragile congiunturalità. Gli atti del convegno napoletano mostrano nel loro insieme come l'Igs abbia cercato di recepire in positivo le condizioni attuali, tentando di promuovere e di praticare una attenzione a Gramsci di tipo nuovo, che sia all'altezza dei tempi, che intenda in senso alto la dimensione della politica, che attraversi la complessità del capitalismo contemporaneo in tutte le sue componenti, e soprattutto che si collochi consapevolmente nella grandezza planetaria dei fenomeni storici.

La domanda centrale del convegno, che rinvia a interrogativi certamente più ampi sul presente e sul futuro, è stata: può Gramsci aiutarci a comprendere criticamente il mondo di oggi, nel difficile e velocissimo tornante della storia che si sta rivelando essere questa fine secolo? Ovvero, può egli aiutarci a diventare attivamente costruttori di un mondo differente, nel secolo nuovo, mentre l'egemonia del capitalismo sembra essersi definitivamente radicata? La domanda riprende un passo di Antonio Labriola, noto a Gramsci, in cui l'intellettuale socialista si interrogava sull'attualità di Marx nel passaggio tra Otto e Novecento.

Gli argomenti, i problemi, le parziali risposte, e soprattutto le domande ulteriori degli intellettuali venuti da quattro continenti hanno investito alcuni nodi centrali per la riflessione politica: il rapporto tra socialismo e democrazia, tra istituzione statale e società, il problema della costruzione della egemonia, la condizione materiale e ideologica di subalternità, la formazione di soggettività intesa sia in senso storico-sociale che in senso individuale, il rapporto possibile tra un punto di vista marxista rivisto alla luce dell'esperienza della storia e alcuni esponenti e momenti significativi di altri punti di vista critici del capitalismo; tutto all'interno di un discorso complessivo di riflessione sulla eredità gramsciana e sulle ragioni della sua diffusione mondiale.

Va subito notato che, sebbene la diversità degli approcci, talora perfino antitetici, sia una caratteristica molto evidente nel libro, come lo era stata del convegno (e non poteva non essere così, dato il carattere dell'associazione che ha promosso entrambi), alcuni capisaldi sembrano sostenere praticamente tutte le letture e gli usi di Gramsci che sono stati proposti. Il fatto è notevole, perché lo sfondo di convergenza riguarda l'esclusione di ogni ipotesi di interpretazione di Gramsci in chiave liberale, relativamente a tutti i punti teorici che fino a tempi recentissimi, in Italia, sono stati fatti oggetto di tale riduzionismo. In alcuni casi, addirittura, la condizione di "verginità" di alcune letture rispetto all'influenza dalle interpretazioni liberali, a partire da quella di Bobbio, ha permesso loro di incontrare Gramsci in modo più diretto (o attraverso mediazioni ideologiche meno pressanti), di conoscerlo come un pensatore rivoluzionario in un senso peculiare, che lotta per trasformare la società e che per queste ragioni e non altre cerca di capire fino in fondo il capitalismo e i suoi meccanismi di riproduzione del consenso, per opporvisi lucidamente. Il [END PAGE 4] riesame del nesso società civile / società politica, o del rapporto socialismo / democrazia, nel nostro libro, partono da qui, e da qui, gramscianamente, "prendono partito".

L'orizzonte di riflessione sul tema della democrazia, con cui Gramsci doveva confrontarsi al suo tempo era quello degli elitisti, ricorda Domenico Losurdo. Pareto, Mosca, Michels definiscono in epoca liberale la democrazia come possibilità di scelta, da parte della massa, tra le leadership già potenzialmente interne alla classe dirigente, in assoluta assenza di "ogni idea di emancipazione e partecipazione popolare al potere". Intorno alla valorizzazione che Gramsci opera della democrazia, si può dire, secondo Losurdo, che si definisca la sua originalità rispetto a Marx, a Engels e a Lenin. Questi autori, infatti, focalizzavano la loro attenzione sul tema dell'estinzione dello Stato, con un utopismo che non permetteva loro di considerare i rischi di sovversivismo e frammentarietà delle classi subalterne insiti in una prospettiva così messianica della storia. Per Gramsci, invece, è la capacità di creare un "ordine nuovo" la condizione di maturità di un gruppo subalterno: la sua visione della storia è decisamente processuale, non attendista. L'originalità di Gramsci, rispetto ai suoi predecessori teorici, risiede in definitiva, secondo Losurdo, nel pensare una politica che non sia liquidata nella semplice presa del potere, ma che sia costruzione, percorso.

Anche per Aldo Tortorella Gramsci è "fermissimamente critico verso ogni forma di avvenirismo" e coltiva una idea della storia come "costruzione umana concreta". Il socialismo di Gramsci, infatti, non si pone mai come aprioristica certezza rispetto all'agire storico, esso non produce una riflessione solo sul modo della lotta, ma una ridiscussione continua anche sul suo senso, con tutte le implicazioni etiche che ciò comporta. La riflessione sullo Stato in Gramsci investe criticamente sia le istituzioni liberali, con la loro divisione ontologica tra dirigenti e diretti, sia le forme assunte dal socialismo sovietico, con la sua sclerotizzazione burocratica della rappresentanza. La ricerca, allora, va verso il difficile punto d'incontro tra la storicità delle istituzioni e la durevolezza di un nuovo principio etico che argini il rischio di degenerazione dello storicismo assoluto in relativismo assoluto. Il socialismo è per Tortorella una idea-limite: lo è in Gramsci e deve esserlo nell'azione politica della sinistra per l'oggi, alla quale raccomanda di non essere sbilanciata troppo sul versante della gestione del potere, così come su quello della mera analisi sociale, entrambi troppo parziali se non opportunamente unificati e informati da un principio etico forte.

Un nesso stretto, quasi di identità, tra socialismo e democrazia, rileva in Gramsci Carlos Nelson Coutinho. Pur con le sue critiche anche molto aspre alla deriva stalinista della Rivoluzione bolscevica, anzi proprio in ragione di quelle, Gramsci è fino in fondo un comunista. Egli, nella sua interlocuzione con il partito sovietico, si mostra ben conscio dei rischi di cristallizzazione della statolatria che esso corre e continuamente richiama l'attenzione sulla necessità "della costruzione di una forte società civile che garantisca la possibilità dell'autogoverno dei cittadini, ossia di una democrazia pienamente realizzata". È questo il socialismo che propone, un [END PAGE 5] modello al cui centro "deve risiedere non il rafforzamento dello Stato, ma nell'ampliamento di uno spazio pubblico non statale". Anche per Coutinho sta in questo ultimo aspetto l'originale superamento di Marx e Engels che compie Gramsci, nel considerare la politica come sfera relazionale. Nella sua idea integrale di democrazia, ben lontana dalla visione liberale di rispetto delle regole del gioco, ha un ruolo chiave il tema dell'egemonia, che va a definire il concetto di "volontà collettiva", prossimo per certi versi a quello di "volontà generale" nelle elaborazioni di Rousseau e di Hegel. Nella sua elaborazione del concetto di egemonia, Gramsci da un lato mutua da Hegel la nozione di eticità, dall'altro raccoglie la concezione di Rosseau della politica come contratto: la società regolata è frutto di una volontà collettiva perseguita consensualmente e progressivamente. Una democrazia autentica, dunque, senza scorciatoie, e un autentico comunismo.

Per Frank Rosengarten il nesso tra democrazia e socialismo è dato dal comune referente costituito dal capitalismo. Questa considerazione conduce lo studioso americano a vedere in Gramsci il punto di convergenza tra la tradizione riformista e socialdemocratica e la componente storicamente più rivoluzionaria del socialismo. Un simile punto d'incontro implica però un radicale ripensamento dei modi in cui questi due ceppi hanno attraversato il Novecento. Ricalibrare la teoria sulla base della pratica, del resto, era un costume tipico del realismo gramsciano ed è una necessità attualissima per noi. Si tratta di avere al tempo stesso una grande capacità di presa di coscienza di ciò che accade e una altrettanto solida fermezza riguardo agli obiettivi di fondo: per Rosengarten la tradizione di pensiero democratico degli ultimi cinquanta anni -nella quale include nomi come quello di Cornel West accanto a Michael Foucault, o di Eric Hobsbawm e di Noam Chomsky- è abbastanza forte da poter sostenere gli ideali del socialismo, anche se, naturalmente, in forme nuove.

Hiroshi Matsuda pone al centro del suo discorso la riflessione gramsciana sullo Stato. Anche negli studi nipponici è evidente la distanza critica con cui Gramsci guarda alla deriva del socialismo sovietico. Per Gramsci il socialismo non è un apparato di potere, ma "una visione integrale della vita", e lo Stato una nozione ampia composta dall'articolazione di forza e consenso. Il raggiungimento di un livello reale di autogoverno per paesi come il Giappone è condizionato, secondo Matsuda dalla modalità originaria cui si è realizzata la modernizzazione. Egli fa riferimento alla statolatria come condizione tipica orientale in cui la società civile è debole: per questa ragione lo Stato giapponese si è costituito sulla base di una forte egemonia occidentale, subendo e riproducendo il modello di una cultura dominante. Si è trattato, cioè, di una "modernizzazione dall'alto", che solo in tempi recenti sta parzialmente cedendo il passo a forme di autogoverno e a un primo abbozzo di autorganizzazione della società civile, da ampliare decisamente.

Ancora sull'eticità del pensiero di Gramsci si sofferma Domenico Jervolino che propone un approccio "ermeneutico in senso storico-esistenziale" al comunista sardo. Lontano da [END PAGE 6] qualunque moralismo astratto e astorico, come la tradizione di pensiero di cui fa parte, Gramsci nutre il suo pensiero politico di una "ispirazione etica fondamentale" che lo tiene lontano da qualsiasi rischio tecnicistico e meccanicistico. La proposta di Jervolino è di leggere Gramsci raccordando il suo pensiero, per poterlo rendere più attivo nelle condizioni odierne, a quello di altri autori "dell'etica noventesca". Prima di tutto a Ricoeur, teorico di una distinzione tra etica e morale in cui la prima si configura come "telos della vita buona", attraverso l'elemento nuovo del desiderio, e la seconda definisce un sistema di norme e obbligazioni che si rende necessario in un momento successivo. L'etica gramsciana sembra molto vicina a quella di Ricoeur, nel suo porsi come la "tendenza di ogni essere umano a realizzarsi come tale, nella comunità degli uomini". Il confronto con culture diverse potrebbe aiutare, ad avviso di Jervolino, a valorizzare un elemento della filosofia della prassi ineludibile oggi: la finitudine dell'agire politico. Far interagire la lotta gramsciana contro la passività con la valenza positiva del nesso attività-passività in Ricoeur, per esempio, potrebbe esplicitare meglio quel senso del limite dell'agire umano che pure è così circolante in Gramsci. Un altro importante momento di confronto è certamente quello con la religiosità e le culture religiose, alcune delle quali, a partire dalla teologia della liberazione, rappresentano oggi importanti forme di critica dell'ordine mondiale.

Notevole e corposo è il contributo di alcuni studiosi che hanno voluto sottolineare la qualità particolare della filosofia della prassi rispetto al marxismo e al materialismo storico, ai quali essa è stata troppo spesso semplicemente assimilata, da letture ortodosse o superficiali. È il caso di Renato Zangheri che mostra l'insoddisfazione di Gramsci già rispetto alla semplicistica riconduzione del marxismo a materialismo, seppure aggettivato come storico. Rifacendosi al Marx delle Tesi su Feuerbach, infatti, Gramsci rileva che la torsione eccesivamente oggettivistica del materialismo concede spazio libero all'idealismo per porsi come sfera del soggetto, sebbene incompleta rispetto all'attività reale. È sulle orme di Antonio Labriola, però, che Gramsci potrà iniziare l'elaborazione della filosofia della prassi "come teoria del soggetto attivo della storia", arricchendo la necessaria dialettica tra materialismo e idealismo dei molti stimoli e delle rilevanti suggestioni di tutta la cultura primonovecentesca. Il materialismo storico, anche attraverso la riduzione di alcuni suoi concetti a figure convenzionali, diventa in Gramsci "l'ideologia di un periodo particolare della vita delle masse", mentre alla filosofia della prassi è assegnato il compito del tutto nuovo di "unificare materia (natura) e spirito", per un superamento di "ogni interpretazione della storia che non desuma dalla storia stessa i suoi criteri di analisi e di giudizio". Non si tratta di un precetto che vada alla ricerca di un sistema di leggi dello svolgimento della storia, e neanche di una rinuncia all'elemento naturale dell'essere: è un "umanesimo assoluto", per usare una trascurata espressione di Gramsci che è invece necessaria integrazione di "storicismo assoluto", e che allude alla componente etica dell'agire storico e teorico. [END PAGE 7]

Anche per Wolfgang Fritz Haug la filosofia della prassi è una radicale ridefinizione del materialismo storico che mira a superarne l'oggettivismo. Le letture che di Gramsci fa Althusser possono aiutare nella comprensione di alcuni nodi teorici. Il filosofo francese intuisce i termini della distanza e li evidenzia per prendere le parti del materialismo storico, poiché a suo avviso Gramsci commette l'errore di fare della storia una entità onnicomprensiva, in cui non si possono più distinguere neanche la conoscenza dall'oggetto della conoscenza. Solo in un secondo momento Althusser affermerà il "primato della funzione pratica sulla funzione teoretica nella filosofia stessa", questione che introduce al complesso problema del ruolo dei filosofi e degli intellettuali rispetto alla trasformazione e alla interpretazione del mondo. Un interessante accostamento Haug stabilisce tra Gramsci e Brecht, che egli definisce uno dei più grandi filosofi marxisti del secolo, sebbene ancora in gran parte misconosciuto. Oltre ad aver accolto entrambi le spinte antimetafisiche dei principali filoni del pensiero contemporaneo, l'uno e l'altro hanno cercato di "afferrare il momento attuale e allo stesso tempo di tralasciare un presente in cui non erano presenti, scrivendo per un domani del quale non potevano essere certi che sarebbe arrivato". In particolare Brecht è vicino a Gramsci per il senso della totale immanenza della storia, un senso che permea la filosofia della prassi rendendola duttile alle trasformazioni "senza essere superata nelle sue determinazioni essenziali".

André Tosel vede nella filosofia della praxis la forma moderna del materialismo storico e rinviene la sua autonomia teorica nel riconoscimento della sua dipendenza dai rapporti sociali, nella sua impurità storica. La praxis, cioè, è quel movimento possibile che conduce un gruppo umano dalla sua fase economico-corporativa a quella etico-politica, in vista di una generale unificazione del genere umano. Attraverso questa definizione si può individuare un criterio di verità in Gramsci: è vero ciò che unifica, che permette la costruzione di un soggetto collettivo, è falso ciò che divide. L'unificazione, quindi, ha anche valenza di movimento di soggettivazione. Rispetto al marxismo e al leninismo, la filosofia della praxis pone se stessa come luogo permanente di riflessione non solo sulla realtà storica, ma soprattutto sulle ragioni del socialismo, della lotta comunista. Non c'è dubbio che, alla prova dell'analisi storica "il programma gramsciano è rimasto una bella utopia" e che, quindi, "l'autoriflessione della filosofia della praxis potrebbe essere considerata come riflessione delle ragioni oggettive del suo fallimento". Si sono verificate tutte le previsioni peggiori di Gramsci. Tosel individua anche dei limini nella filosofia gramsciana, per esempio quello di una metafisica del soggetto collettivo, inteso in un senso troppo totalizzante. La teoria del partito va, in questo senso, sostanzialmente rivista.

Anche nel contributo di Roberto Finelli il problema della costituzione del soggetto è centrale e complesso. L'unificazione del genere umano intesa come processo dinamico, come costruzione è senza dubbio l'elemento di dirompente originalità del pensiero di Gramsci rispetto al materialismo di Feuerbach e di Marx, i quali presupponevano spiritualisticamente il genere umano come soggetto della storia. Pensare la soggettività come risultato implica una concezione della [END PAGE 8] filosofia come prassi, cioè, appunto come produzione di senso. La contraddizione principale, allora, per Gramsci non è quella tra capitale e lavoro, ma tra condizione materiale di vita di una classe sociale e sua capacità di autorappresentazione. La classe subalterna, infatti, è tale proprio in quanto è incapace di avere coscienza di sé. È in questo ambito che per Gramsci assumono importanza l'ideologia come momento gnoseologico e gli intellettuali come mediatori del senso: I'organicità dell'intellettuale alla classe che non sa autorappresentarsi è paragonata da Finelli all'affidamento psicanalitico. Gramsci però sottovaluta l'elemento naturale e quello economico nella storia, come dati esistenti ma sempre in funzione di un superamento ad opera del soggetto, potenzialmente capace di azione illimitata. Il processo ideologico di occultamento della continua produzione di divisione, tipico del capitalismo non è colto fino in fondo da Gramsci, secondo Finelli, che nota anch'egli la scarsa rilevanza del ruolo del corpo nella costruzione del soggetto storico. Un certo volontarismo, dunque, finisce col caratterizzare anche la teoria gramsciana del partito (Finelli concorda anche su questo con Tosel), soggetto storico per eccellenza. L'assenza di contraddizione nel soggetto storico gramsciano è il segno di un residuo non superato della filosofia di Gentile e Croce nel pensiero di Gramsci, ma resta centrale per noi oggi continuare a tentare una prassi produttrice di soggettività.

L'emarginazione ideologica, cioè la non visibilità, è il problema centrale delle classi subalterne anche nell'analisi di Joseph A. Buttigieg, per il quale, però la teoria gramsciana del partito è decisamente da rivalutare, poiché esso può rappresentare il reale controbilanciamento "alla debolezza e inefficacia politica dei gruppi subalterni". Nei Quaderni è molto stretto il nesso tra le questioni di subalternità, società civile ed egemonia: Gramsci non dimentica mai che le relazioni egemoniche che hanno luogo nella società civile consistono in rapporti di potere disuguale perché è proprio della classe dominante (egemonica) privare i gruppi subalterni della possibilità di accedere al potere, di produrre una controegemonia. Non è vero, cioè, come propone di credere l'ideologia liberale, che la società civile è il luogo in cui si compete tutti alle stesse condizioni, e non è vero, soprattutto, che Gramsci aderisca a questa ideologia stabilendo una distinzione netta tra società civile e società politica. Egemonia e dominio di una classe non sono scindibili per Gramsci: è per questo che il ruolo del partito è fondamentale (come sta dimenticando la sinistra "postmoderna"), perché la condizione per il superamento dello stato di subalternità non è la conquista di qualche diritto civile, ma la capacità di una classe di pensarsi Stato. La categoria di subalternità circola oggi largamente negli studi accademici, per esempio nei cultural studies e nel new historicism. Si tratta però troppo spesso di una nozione sostanzialmente culturalistica o indifferenziata di subalternità. Nella definizione di questo concetto Gramsci o non è presente agli studiosi che se ne occupano, o lo è in modo incompleto a causa della circolazione non integrale della sua opera. È il caso di Ranaijat Guha, del South Asian Subaltern Studies Group che coglie essenzialmente una proposta storiografica innovativa in Gramsci, e non il suo significato politico di premessa alla [END PAGE 9] costruzione di un partito rivoluzionario. Anche Edward W. Said, del resto, nella prefazione al libro di Guha e dei suoi colleghi mostra il loro stesso atteggiamento.

È però Giorgio Baratta a soffermarsi diffusamente sul politico e critico letterario di origine palestinese e sul suo particolare uso di Gramsci. Anche in questo caso siamo di fronte a una conoscenza parziale dei testi. E non a caso Baratta parla di uso, sottolineando come l'opera gramsciana sia apparsa sempre particolarmente congeniale (rispetto al piano della politica come a quello della cultura) a questo tipo di rapporto. Nel suo ultimo libro, Culture and imperialism, in cui imperialismo è soprattutto una categoria geografica e culturale per descrivere forme di egemonia e di ibridismo tra culture forti di partenza come quelle inglese o francese e valori propri di società ad esse lontane, Said individua in Gramsci un modello geografico di analisi politica e culturale, che tenta, attraverso il lavoro intellettuale, di "connettere regioni apparentemente disparate della storia umana". Altro uso interessante di Gramsci è quello che compie Stuart Hall, per cui le nozioni gramsciane di egemonia, intellettuali, popolo si sono rivelate le più capaci di comprendere la fase storica in esame. Hall, inoltre, riconosce a Gramsci una grande capacità di intendere le specificità e i dislivelli antropo-territoriali, condizione fondamentale per la costruzione di un nuovo livello di "popolo", nel senso di soggetto antagonista, adeguato alla contemporaneità. Più complesso il discorso su come Etienne Balibar si confronta con Gramsci. Egli ne usa soprattutto la categoria di egemonia, rispetto "ai problemi della cittadinanza, della democrazia, delle frontiere nell'attuale congiuntura internazionale". L'attuale panorama di universalismo postnazionale, una sorta di unificazione del genere umano con risultati completamente diversi da quelli della prospettiva socialista, induce Balibar a guardare al tema della frontiera come a qualcosa di mobile, di più legato alle possibilità di congiunzione che di separazione. Baratta coglie però anche che il concetto di egemonia è da Balibar piuttosto irrigidito: la costruzione delle egemonie storiche e sociali finisce con l'identificarsi, con la formazione di ideologie totali; l'accezione dinamica in Gramsci, con la sua tensione di lotta, colta molto bene da Hall, cede il passo in Balibar a una visione "normalizzante". Di Gramsci, come si vede, si vanno facendo usi proficui da parte di studiosi in varie parti del mondo: una pratica, dice Baratta, che richiede prudenza e spregiudicatezza insieme, cioè creatività non strumentale, e che mette in primo piano Il problema della conoscenza integrale di testi. È il problema delle edizioni, da rivedere anche per l'Italia, purché seguendo la bussola di una "filologia democratica".

Si occupa di questo tema Guido Liguori, che opportunamente mostra il nesso tra filologia e politica ripercorrendo le tappe delle edizioni dei Quaderni. La prima, quella tematica voluta da Togliatti, proponeva un rimontaggio dell'ordine delle note secondo la divisione tradizionale dei campi disciplinari, col doppio risultato di non marcare molto il dissenso di Gramsci verso l'esperienza sovietica e di risultare compatibile alla lettura della intellettualità democratica in senso largo; la seconda, l'edizione critica dell'Istituto Gramsci, curata da Valentino Gerratana, [END PAGE 10] restaurava filologicamente il testo gramsciano, corredandolo di un imponente apparato di note, e rappresenta ancora oggi un punto di riferimento insostituibile in tutto il mondo. Si ragiona da tempo all'ipotesi di una nuova edizione critica dei Quaderni, entro il più vasto piano di una edizione nazionale di tutta l'opera di Gramsci. Può essere una operazione utile, dice Liguori, se i suoi sostenitori non si porranno in un'ottica totalizzante (e depoliticizzante) che voglia vedere tale edizione nazionale come l'unica versione degli scritti di Gramsci da oggi in poi accreditata, e se essa non suggerirà implicitamente già una ipotesi interpretativa, come invece lo stato attuale della discussione lascia temere.

Di Gramsci linguista scrive Tullio De Mauro, racchiudendo simbolicamente nell'esperienza della "traduzione" i contatti tanto variegati di Gramsci con fatti in senso lato linguistici: dal tradurre il mondo dialettale a quello urbano, al trasportare in indicazioni politiche i bisogni della classe operaia e così via. È un tradurre nel senso di rendere comprensibile, quindi possibile, quello di questa efficace immagine di de Mauro. La parola, infatti, è per Gramsci insieme alla "mano" lo strumento dell'azione dell'uomo sulla natura, la cui modificazione non vuole significare riduzione, ma semmai trasvalutazione. Su questo punto può essere ricca l'interlocuzione di de Mauro con altri autori del libro. L'interesse originario di Gramsci alla questione della lingua italiana in epoca unitaria, che nasce come storico e nazionale, si modifica entro l'approfondimento della teoria e della analisi politica e si trasforma alla fine del percorso dei Quaderni, da idiografico a nomografico, cioè si colloca in un discorso più ampio, di valore generale: la questione della egemonia. De Mauro, in definitiva, pur sottolineando la rilevanza delle riflessioni di Gramsci sulla lingua, non la rende totalizzante, e piuttosto che "una teoria della grammatica come modello (come pensava Lo Piparo) ", egli la vede "in complementazione di una teoria della società, della cultura, della politica.

È il nesso egemonia-comunicazione, lo stesso di cui si occupa, mutati mutandis, Luciana Castellina, che ragiona ponendo a confronto (e tentando di far agire) la teoria gramsciana col mondo ipertrofico dell'informazione in cui siamo immersi oggi. Castellina propone una serie di temi di riflessione assolutamente di primo piano: la fine della specificità del lavoro intellettuale, il mutamento del ruolo della cultura, le conseguenze sul mondo del lavoro e sulla democrazia della velocizzazione dei sistemi informativi ecc. Un problema non sempre visibile è quello delle nuove tecnologie che, favorendo l'atomizzazione culturale, impediscono il formarsi di una egemonia alternativa, ma al tempo stesso vengono vissute da molti come fonti di libertà, potenziali mezzi di autogoverno. Esse alimentano una mitizzazione della democrazia diretta, attraverso l'uso de mezzo semplificatorio del referendum elettronico, o anche televisivo, un mezzo di cui servirsi individualmente e che riduce fortemente il senso della comunità. La globalizzazione informatica sta determinando per alcuni ceti, una liberazione dalla propria determinazione fisico-sociale, un rapporto schizoide tra livello globale e locale e, quindi, nuove forme di cosmopolitismo. "Lo [END PAGE 11] spazio della globalizzazione non è lo spazio universalista della uguaglianza potenziale. È piuttosto una società nella quale i forti possono finalmente rompere il loro legame di prossimità territoriale con i deboli (i loro vicini) e dialogare direttamente con i forti che sono lontani". La ripresa di una soggettività forte, molto difficile da costruire, è oggi un obiettivo ineludibile e due trascurati temi gramsciani vanno recuperati decisamente: il partito e la rivoluzione intellettuale e morale.

Sabine Kebir delinea lo scenario mondiale dei conflitti. Di fronte alla mondializzazione del capitale, fenomeno peraltro non nuovo, ma certamente reso più efficace negli ultimi anni dalla velocità con cui agisce, la sinistra non riesce a creare un fronte di opposizione internazionale, legata com'è alla dimensione nazionale della politica. Questa idea non può derivare, secondo Kebir, dal pensiero di Gramsci, la cui attenzione acuta ai dati locali è sempre in rapporto a una visione universalistica, che ha come obiettivo l'unità del genere umano. L'identità culturale, una idea che la destra usa come fattore di esclusione dell'altro, rischia di diventare un concetto difensivo e perdente anche per la sinistra, se non la si fa interagire attivamente in una prospettiva di "uguaglianza nella differenza", proprio come pensa Gramsci, il quale non prevede l'omogeneizzazione delle culture locali in vista del suo internazionalismo di tipo nuovo. La prospettiva di una solidale divisione del lavoro su scala mondiale, per quanto ardua, è certamente da riprendere: è un appello che non concede alla sinistra le attenuanti della sua sconfitta storica, perché la gravità dello sfruttamento di alcuni gruppi umani su altri, di alcune aree su altre è una realtà che reclama di essere affrontata. Non è possibile che la sinistra accetti l'avanzare di nuove ideologie antiuniversalistiche, come quella di Samuel Huntington, senza combatterle nella pratica reale.

Lo pensa anche Alistair Davidson, che vede nelle politiche di molti leader asiatici un atteggiamento che cerca di calcare sul tasto della insanabile diversità tra la cultura occidentale e quella orientale proprio nella direzione che sta alla base di The clash of civilizations. Ma esistono veramente dei "valori asiatici" condivisi anche dalle masse popolari, dal momento che tali valori sono del tutto antipopolari e antidemocratici? Oppure essi, come sembra suggerire Davidson, sono solo forme del dominio che riescono a prevalere a causa della incapacità dei gruppi subalterni di rendere filosofia il loro folclore? Torniamo alla questione, centrale su scala planetaria, come si vede, dell'autrappresentazione sociale. E torniamo anche alla consistenza delle condizioni materiali di vita come fondamento di ogni weltanschauung: Davidson ricorda una inchiesta dell'Unesco dalla quale si evinceva l'equivalenza di alcuni valori legati appunto alle condizioni di vita per tutti i popoli e praticamente per tutte le epoche. È la traducibilità delle culture, con linguaggio gramsciano, una questione che le letture postmoderniste riducono a omologazione culturale, minimizzando la reale portata della creatività popolare. Gramsci, invece, va riletto come "teorico della comunicazione e costruzione dell'unità attraverso le differenze culturali. [END PAGE 12]

Giorgio Baratta e Guido Liguori hanno corredato il libro di alcune informazioni sugli scopi della Igs e sulla sua storia, perché Gramsci da secolo all'altro circoli anche come esperienza di relazione di un insieme di persone impegnate in tutto il mondo in una impresa comune, che è qualcosa in più di una raccolta di saggi.   ^ return to top ^ < prev | tofc | next >